impazziscono –
gente di montagna del Kentucky
o del frastagliato limite nord del
Jersey
con i suoi laghi solitari e
le valli, i suoi sordomuti, i ladri
i nomi antichi e la promiscuità tra
uomini spavaldi, nomadi della
strada ferrata
per schietta brama d’avventura –
e giovani sciatte, immerse
nel sudiciume
dal lunedì al sabato
per essere agghindate quella notte
con fronzoli
usciti da fantasie senza
tradizione contadina che dia loro
carattere
se non di ammicco e di esca
null’altro che stracci – soccombenti senza
emozione
fuorché di torpido terrore […](William Carlos Williams)
I frutti puri impazziscono. Potrebbe essere una delle “morali”, visto che tanto di morale si parla, che emergono dal percorso intorno a “Educazione siberiana”, prima libro-cult di Nicolai Lilin, poi spettacolo teatrale (al debutto martedì sera allo Stabile di Torino per la regia di Giuseppe Miale di Mauro), e da ieri anche al cinema, firmato da Gabriele Salvatores.
Ma torniamo un attimo ai frutti puri. Il verso è del poeta americano William Carlos Williams (“Spring & All”, 1923), e fu ripreso da James Clifford, professore all’Università della California, per titolare un suo celebre saggio sulla “modernità etnografica” fra antropologia, letteratura e arte nel XX secolo. Un libro (edito in Italia nel ’93 e nel ’99 da Bollati Boringhieri) che descrive e riflette sul disincanto e lo straniamento che emergono di fronte a tradizioni frammentate (soprattutto per popolazioni che hanno avuto potenti e traumatiche colonizzazioni), identificando in più modi, trasversali, quello sradicamento e quella instabilità che, con l’epoca moderna, sono parsi diventare sempre più un destino comune a molti popoli, con la perdita di una invocata e mitizzata autenticità (e quindi purezza) primitiva.
Torniamo un po’ indietro.
Lilin nasce a Bender, in Transnistria (ex stato dell’Urss) nel 1980. Vive nel quartiere di Fiume Basso, dove negli anni ’30 si erano rifugiati i criminali espulsi dalla Siberia; cresce in una comunità di cosiddetti “criminali onesti”, in un quartiere che è come una grande famiglia in cui vige la legge criminale siberiana, la cui base morale – spiega l’autore nel libro pubblicato da Einaudi nel 2009 – “prevede umiltà e semplicità nelle azioni di ogni singolo criminale, e rispetto per ogni essere vivente”, quindi amicizia, lealtà, condivisione dei beni, cura dei più deboli. Ideali che, affiancati a una quotidianità fatta di omicidi, armi (“oneste o “di peccato”), entrate e uscite di galera, attività illecite e pestaggi feroci parrebbero in forte antitesi. Ma, guardandola da un altro punto di vista, così non è, come insegnano anche altre comunità criminali. In ognuna vigono delle regole d’onore, soprattutto in passato.
Già, perché le cose ormai sono cambiate, e la sete di denaro e potere dei giovani, hanno portato modifiche interne che agli anziani siberiani fanno rimpiangere il passato.
La vita di Lilin ha una svolta decisiva con l’arrivo in Italia, inizialmente in provincia di Cuneo, dove già viveva la madre. Qui fa il tatuatore, arte che ha appreso nella sua comunità, in cui è la pelle a raccontare storie e stabilire legami.
Fino alla pubblicazione di “Educazione siberiana”, in cui decide di raccontare la sua storia, e a tutto ciò che ne seguirà.
Il libro (cui ne sono seguiti altri tre, uno all’anno, l’ultimo uscito poche settimane fa è “Storie sulla pelle”, che dedica sei racconti ai tatuaggi, elemento fondamentale nella vita del criminale siberiano) è quindi un’iniziazione alle regole della comunità Urka. Un racconto che diventa scoperta di un mondo, e proprio per questo (con quel fascino “dell’esotico” e del proibito) ha conquistato tanti lettori, garantendosi traduzioni in 23 Paesi.
Giuseppe Miale di Mauro firma la regia di uno spettacolo teatrale (in scena a Torino fino al 21 marzo e poi al Teatro Fabbricone di Prato dal 4 al 7 aprile) di cui ha curato insieme allo stesso Lilin la stesura. “Ci sarebbero voluti due giorni in più di prove – svela il regista nel foyer, prima che il pubblico entri in sala per il debutto assoluto – ma siamo comunque soddisfatti”.
E a due giorni di distanza esce nelle sale anche l’omonimo film di Salvatores con John Malkovich. Ecco allora, con questa terza visione, che il nostro personale “Lilin tour” può concludersi.
Quante volte si dice che “il libro è un’altra cosa”? In questo caso, forse più che in altri, appare inevitabile, visto che la narrazione, nel fitto romanzo di oltre trecento pagine, non segue una serie di avvenimenti, ma si compone per ricordi, esperienze, spiegazioni di quel mondo vicino eppure lontano, che viene descritto relegando i sentimenti in secondo piano per un’iniziazione in qualche modo più “didattica”.
Sia Miale che Salvatores ricostruiscono invece una storia abbastanza lineare, attingendo in parte anche agli stessi aneddoti, simbolo di una cultura. Che, inevitabilmente, ne risulta più povera rispetto al libro, e in qualche modo semplificata.
E’ inevitabile, pur trovandoci di fronte a espressioni artistiche diverse, porre a confronto le tre opere: romanzo, spettacolo e pellicola.
L’operazione più difficile era probabilmente la trasposizione teatrale, che vede il giovane regista ricostruire una vicenda, un’ambientazione, che ricorda per certi versi quelle della nostra camorra. Tanto che il pensiero va, inevitabile, alla “Gomorra” di Mario Gelardi, cui in effetti Miale di Mauro ha lavorato e da cui arriva anche parte del cast.
In un mondo al maschile, emerge qui la figura materna (Elsa Bossi), che dà voce a una narrazione che punta al contrasto, all’interno della comunità, tra due fratelli: Boris (il “giusto”, colui che rimane legato agli insegnamenti della tradizione) e Yuri (il “ribelle”, pronto ad infrangere ogni regola pur di arricchirsi e godere del consumismo occidentale – con quei jeans così desiderati, simbolo dell’America, vietati dalla tradizione – e illusione di una nuova libertà).
Su questo stesso scontro, che inevitabilmente avrà una fine tragica, punta anche il film di Salvatores, che però contrappone anziché i fratelli teatrali, due amici d’infanzia.
Ad aiutare la ricostruzione di questa doppia visione della vita, dell’appartenenza a una comunità vista come famiglia oppure come gabbia, del desiderio di autorevolezza e rispetto piuttosto che di ricchezza materiale, ci sono i coprotagonisti, in particolare la figura del nonno Kuzja: Luigi Diberti a teatro e John Malkovich nel film, senz’altro tra i personaggi meglio delineati in entrambi i casi.
Se però si deve dare atto alla riduzione teatrale di avere in qualche modo alternato a violenza e tragedia anche una caratterizzazione dei personaggi a tratti ironica, così come emerge nel libro, Salvatores ha abbandonato qualsiasi tentativo di rappresentare lati meno “epici” dei personaggi, privilegiando nella sceneggiatura un’emotività quasi eccessiva, alla ricerca del pathos dello spettatore, e in questo distanziandosi maggiormente dal romanzo.
“Se la libertà avesse un odore – scrive Lilin nel suo ultimo “Storie sulla pelle” – sarebbe quello dei prati primaverili che coprono le sponde del fiume su cui sono cresciuto”.
Mentre tutto, nella quotidianità odierna di Nicolai, pare correre veloce, in una vita ormai divisa fra la galleria d’arte Kolima che ha creato a Milano e il tour promozionale che lo fa saltellare per l’Italia, con la sua agente subissata di telefonate per interviste e impegni, schiere di fan e detrattori che continuano ad ingrossarsi (dalle critiche piovute in passato per la sua presentazione del libro a CasaPound, all’accusa di narrare fatti non veri, fino a presunte minacce di morte…), è arrivata pure la conduzione di un programma televisivo, Le Regole del Gioco, su Dmax.
Tra la quotidianità dell’oggi e le atmosfere raccontate nei libri – quelle di un tempo perduto quasi onirico così come la violenza e la marginalità di una regione post-sovietica negli anni ’80 e ’90 – sembra esserci un abisso. Un balzo spazio-temporale che provoca, solo a pensarci, una vertigine.
Cosa penserà di tutto questo la sua grande famiglia? Quei nonni e zii “adottivi”, gli amici d’infanzia, i tanti personaggi che Lilin ha fatto rivivere, tra verità e finzione, realtà e leggenda, nei suoi libri… in quell’affresco di frutti puri impazziti che ha, in lui, un lasciapassare verso la possibilità di un’altra vita.
“Il futuro dell’uomo è qualcosa da immaginare creativamente, non soltanto da subire” sostiene James Clifford nel saggio da cui siamo partiti. E’ forse questa la soluzione per il nostro spazio e tempo di connessioni globali e dissoluzioni culturali. Un suggerimento che Lilin – sempre più, personaggio tra realtà e leggenda – è riuscito, a modo suo, a mettere in pratica.