Dopo le prime edizioni organizzate da Artisti Associati a Lecce, Pisa e Brescia, è stata Gorizia a diventare, ad ottobre, la nuova capitale italiana della danza, ospitando la quarta edizione di NID – New Italian Dance Platform, evento biennale itinerante, vetrina di quella che dovrebbe essere la migliore e più innovativa danza italiana.
Nata dalla collaborazione tra le principali realtà italiane della distribuzione, il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e gli enti locali, questo evento riesce a mettere in contatto compagnie nazionali con i numerosissimi operatori provenienti non solo da Italia ed Europa, che hanno potuto vedere, tra le 118 proposte pervenute agli organizzatori, 16 spettacoli scelti da una apposita commissione proveniente da tutto il mondo.
Nid si è così confermata, per la quarta volta, un’occasione unica per assistere a quanto si muove attorno alla coreografia in Italia, tra realtà già consolidate e artisti emergenti.
A Gorizia ne abbiamo potuto sperimentare tutte le forme in un crogiolo di spettacoli che ci hanno mostrato in quanti modi la danza può essere proposta.
Due gli assoli che ci hanno fortemente coinvolto: lo spettacolo di Daniele Ninarello “Kudoku” e quello di Marco D’Agostin “Everything is ok”.
Ninarello, accompagnato dalla musica dal vivo di Dan Kinzelman, si incontra con il musicista su un territorio di condivisione sperimentale comune: lo spazio della scena come luogo in cui esercitare e trasfigurare il corpo, mettendolo in condivisione con un sonoro del tutto particolare, che mescola l’elettronica con la tradizione di strumenti come sax, clarinetto, flauti, stratificando i vari elementi con l’ausilio di una loop station.
Ninarello crea così, insieme a Kinzelman, un rapporto di gesti con la musica veramente ipnotico; poco alla volta, uscendo dalla penombra, gesti e musica si uniscono, unendo in un dialogo tutti i possibili elementi, anche quelli più impercettibili, di corpo, suono e spazio. Il corpo del performer vibra, si inalbera, si contorce, gira su se stesso in una specie di rito sacro contemporaneo che si inabissa nei meandri dell’occhio dello spettatore.
In “Everything is ok” Marco D’Agostin si pone su tutt’altro versante, dividendo la performance in due parti che si richiamano l’una con l’altra.
Nella prima utilizza un vocabolario ininterrotto di parole, gerghi e luoghi comuni traferiti in lingue diverse; nella seconda, di conseguenza, ad essere ininterrotti sono i gesti e i movimenti, che lanciano allo spettatore immagini corporee, posture e linguaggi differenti. Non è propriamente danza, per lo meno nel suo ssunto più tradizionale, semmai un coacervo di segni riconoscibili che sfiancano gradatamente il corpo del performer, consegnandolo allo sguardo pietoso del pubblico.
Sono invece proposte a due “Re-garde” di Francesco Colaleo e “We_pop” di Davide Valrosso.
In “Re-garde” Colaleo e Maxime Freixas, su un tessuto sonoro assai diversificato (da Aznavour a Trenet ed Alvarez, che fanno capolino da echi più astratti) dialogano tra loro intrecciando movimenti e corpi, creando sul palco un piacevole e divertente gioco di affetti tra i due danzatori, componendo un coinvolgente, nella sua brevità, catalogo delle emozioni.
La medesima cosa ci pare non avvenga nel più freddo e distaccato “We_pop” di Davide Valrosso: sia nel duo composto dal performer con Maurizio Giunti, sia nell’assolo, con maschera da gatto dello stesso Valrosso, che nulla aggiungono al gioco di corpi e gesti se non un corretto esecizio di stile che tuttavia poco comunica allo spettatore, forse desideroso di sollecitazioni più profonde.
Perplessità ci ha lasciato anche il pur corposo lavoro di Fabrizio Favale de Le supplici con “Hekla”.
Lo spettacolo, anteprima al nuovo lavoro della compagnia dal titolo “Circeo”, vede l’ausilio delle musiche originali di Daniela Cattivelli e la presenza in scena di nove danzatori, tra cui lo stesso Favale.
Il lavoro si prefigge, nelle intenzioni dell’autore, di “mettere a fuoco l’andare verso un punto d’approdo, sia spettacolare che metaforico, verso un punto mitico/geografico chiamato Circeo”; in questo modo “si ridisegna in una parabola di allontanamento fino a immaginare di toccare un altro punto geografico e altrettanto mitico: Hekla”.
Accanto della ricercatezza formale e pulita dei movimenti, si pongono – parallelamente alla struttura danzata – delle azioni nella penombra “che creano atmosfere che sono a metà strada fra qualcosa di basilare/arcaico e tecnologico/strumentale, e che dall’ombra influenzano ciò che sostanzialmente è uno spettacolo basato sul puro movimento”.
Purtroppo di tutto questo poche suggestioni ci sono giunte, se non, appunto, il puro movimento dei performer che entrano ed escono dalla scena, collocata in uno spazio evocativo composto da grandi teli che calano avvolgendosi su sé stessi.
Dopo aver visto assai piacevolmente “Le quattro stagioni” di Arearea in versione urbana al Mittelfest, questa seconda puntata “From Summer to Autumn” coreografata da Roberto Cocconi e Marta Bevilacqua, agìta stavolta sul palcoscenico spoglio del Teatro Verdi, in un lavoro che approfondisce la stagione estiva e autunnale, non ci ha avvinto come la precedente.
Lo spettacolo si esplica al femminile nell’estate, con cinque danzatrici che si muovono nel vento e nella tempesta, e nell’autunno da altrettanti uomini alle prese con un mutamento di clima e di sensazioni sulla celeberrima musica di Vivaldi, riscritta da Max Richter nel 2015.
A nostro avviso lo spettacolo si sviluppa con un eccessivo didascalismo, associando ad ogni stagione comportamenti un po’ troppo scontati, stemperati tuttavia da una eccellente qualità dei movimenti e da un’ironia che pervade spesso la scena, oltre che da un uso efficace e originale dello spazio e degli oggetti.
Ma la danza è anche capace di mescolarsi sapientemente con altri linguaggi, come avviene in “In girum imus nocte et consumimur igni” di Roberto Castello di Aldes, di cui su Klp si è già parlato ampiamente, in lizza anche per il Last Seen 2016.
Sull’enigmatico palindromo che definisce lo spettacolo, Castello ha costruito una performance di grande potenza interpretativa, in cui cinema, danza e teatro convivono in modo forte e denso di suggestioni.
Su una musica incessantemente ipnotica, Mariano Nieddu, Stefano Questorio, Giselda Ranieri ed Irene Russolillo creano, attraverso un continuo ed estenuante movimento, una serie ininterrotta di micro narrazioni, subordinate da un video proiettore che scandisce spazi, tempi e geometrie, e in cui una sorta di movimento perpetuo regna sovrano.
“Andiamo in giro la notte e siamo consumati dal fuoco” è davvero quello che il palco ci restituisce, così come la metafora di una umanità sempre in movimento alla ricerca di una felicità composta di brevissimi istanti, che all’improvviso possono catapultarci nella disperazione. Uno spettacolo che trasmette all’osservazione dello spettatore, emotivamente partecipe, la fatica che sul palco consuma i quattro performer.
Ultimamente poi la danza sta invadendo anche il campo difficile delle performance dedicate ai ragazzi, come ha testimoniato il Festival Y Generation di Trento.
A Gorizia abbiamo assistito ad un nuovo spettacolo dedicato proprio ai ragazzi di Alessandro Sciarroni.
Di questo filone avevamo già visto con entusiasmo uno spettacolo dedicato ai bambini, “Joseph Kids”.
Anche a Gorizia il coreografo e performer si è cimentato come autore in un’altra performance con interazioni video per il pubblico giovane, “Home Alone”. La creazione rientra nel progetto con cui Roberto Casarotto, direttore di Balletto di Roma, intende avviare progetti di danza per i più piccoli.
“Home Alone” muove dagli intenti nobili di porre i ragazzi di fronte alla possibilità di osservare i mezzi tecnologici come veicolo di creatività e non di mera alienazione.
In scena una performer, sola in casa, esce dal proprio isolamento interagendo con il computer.
Ecco allora che, con l’utilizzo di questo strumento, inizia un divertente gioco di deformazione del corpo e di diversificazione dello spazio, che viene riverberato anche su un grande schermo.
Parte integrante della performance sono i momenti di gioco interattivo in cui i bambini sperimenteranno il semplice dispositivo tecnologico alla base della performance.
Se gli intenti sono buoni, il risultato tuttavia non ci pare del tutto stimolante, poiché tutte le possibilità ludiche insite della danza vengono qui sacrificate, rispetto ad un gioco facile e ripetitivo che ricorda quelli utilizzati nei villaggi turistici. A nostro avviso, una maggiore concessione alle possibilità del gesto e della corporeità insite nei bambini, che peraltro accorrono gioiosi sul palco, farebbe acquistare allo spettacolo una dimensione più profonda e necessaria.