“A questo mondo il tempo è poco.
E quando tutto sarà scoperto e tradotto in formule,
io ancora non avrò capito lo smalto dei tuoi
occhi cangianti e la bionda steppa di peluria
sulla tua pelle. Quando tutto sarà conosciuto,
creato e ridistrutto, io mi perderò ancora
nel labirinto dei tuoi sguardi. E il singhiozzo
che sale per la via del tuo respiro
mi sgomenterà come nulla al mondo”.
Ingeborg Bachmann, “Il buon Dio di Manhattan”
Sono scene scritte per essere udite quelle de “Il buon Dio di Manhattan”, radiodramma che nel 1953 valse alla scrittrice e poetessa austriaca Ingeborg Bachmann il Premio dei Ciechi di Guerra. Un genere, l’“Hörspiele”, già caro a Heinrich Böll, Friedrich Dürenmatt e Peter Weiss, cui anche l’autrice si dedicherà nel dopoguerra, con il merito in più, tuttavia, di farne genere letterario a sé stante, aspaziale, atemporale e invisibile.
L’adattamento e la regia di Francesca Garolla colgono ora la sfida della rappresentazione, per dare agli accenni del suono stridente, voce corporea e alla parola onirica il realismo della sua immaginazione.
L’amore, l’amore soltanto, generatore distruttivo e barcollante di euforica dismisura, l’amore che “sta nel lato oscuro del mondo ed è più dannoso di qualsiasi misfatto, di qualsiasi eresia” sarà il protagonista di questa storia in cui, per scherzo del caso, s’intrecciano i destini di due giovani, Jan e Jennifer, incapaci di sopravvivere a loro stessi e alle loro contraddizioni, ingabbiati dall’ottusità di un mondo che relega i sentimenti al buon senso e alla conservazione del bene comune. Per questo, per uno strampalato dovere di “tutela della specie” ecco allora che interviene il Buon Dio con la sua legge che ristora, che pulisce e con saggezza inspiegabile uccide. Ad assisterlo due disneyani isterici scoiattoli, mentre, sullo sfondo, campeggia leggera la Manhattan dell’era del jazz nel suo vociare vivace. Frivolo e tragedia, così, sapientemente s’alternano in un rapido e preciso contrappunto musicale che ammicca alla contaminazione dei generi in cui al cinema spetta senza dubbio il titolo di privilegiata comparsa.
In alto, sulla scena, sono appesi due grossi specchi, meccanismo essenziale quanto efficace che Garolla ci offre a ideale telecamera nelle mani del nostro personale montaggio, affiancando il doppio dell’immagine alla polifonia delle voci in presenza, della parola narrativa come di quella che, di fronte a noi, per la prima volta si scopre nascere nella bella prova dei due attori Alberto Onofrietti e Irene Valota, abbandonati senza retorica alla passione che non si contiene. Eppure non c’è dimensione, non c’è luogo quaggiù, su questa nuova Terra. Solo il ventilatore della stanza d’albergo gira vorticosamente, come un orologio dalle lancette impazzite, perché il tempo scompaia, in silenzio, nel perenne non ritorno del cerchio.
In “Non dirlo a nessuno” la fedeltà all’originale non svaluta la creatività della proposta, anzi, amplifica e rielabora, destruttura e determina in maniera intimamente teatrale quel dolore segreto che la Bachmann ancora oggi per noi sente e scrive come l’unica verità capace di renderci sensibili all’esperienza umana.
NON DIRLO A NESSUNO
liberamente tratto da “Il buon Dio di Manhattan” di Ingeborg Bachmann
drammaturgia e regia: Francesca Garolla
con: Alberto Onofrietti e Irene Valota
voci: Federica Fracassi
aiuto regia: Isabella Saliceti
suono: Luca De Marinis
luci e tecnica: Romain Fougère, Marco Preatoni
produzione: Teatro i
durata: 1 h 30’
applausi del pubblico: 2’ 01’’
Visto a Milano, Teatro i, il 29 marzo 2009