L’ultima campanella è suonata. La mattinata di scuola è finita, ma nei corridoi echeggiano ancora delle voci. L’aula è sgombra, sedie e cartelle sono accostate alle pareti. I ragazzi non sono seduti disciplinatamente dietro ai banchi, ma corrono a destra e sinistra gridando: “A morte l’imperatore!”, “Tagliamogli la testa!”, “Grattugiamolo!”, “Diamogli fuoco agli alluci!”.
Scuola in rivoluzione? Studenti con desideri di potere o di anarchia? No, niente sommosse popolari: è la “non-scuola” del Teatro delle Albe, ossia il teatro visto con gli occhi degli adolescenti.
Iniziativa nata venti anni fa dall’idea di Marco Martinelli, la non-scuola è oggi una realtà che coinvolge tutti gli istituti superiori di Ravenna, con decine di “guide”.
I versi di Shakespeare e delle tragedie greche in bocca a un sedicenne non potrebbero mai sembrare plausibili: l’unico modo per far suonare reali quelle parole arcaiche è dare questi testi in pasto ai ragazzi, farglieli masticare e divorare per poi far sì che li reinventino.
Questo è quanto accade con la non-scuola che, partita dal capoluogo romagnolo, pian piano è arrivata a Napoli – in particolare a Scampìa, dove ha gettato il seme che ha fatto nascere Punta Corsara – a Torre del Greco e nel mondo, toccando Mons, Dakar e Rio de Janeiro. Una non-accademia che ha cresciuto un esercito di ragazzi quest’anno tra i partecipanti del festival di Santarcangelo nel laboratorio-spettacolo “Eresia della Felicità”, un’azione corale basata sulle liriche prerivoluzionarie del poeta russo Vladimir Majakovskij, su regia di Martinelli, che vedrà coinvolti duecento “militanti”.
Sul lavoro fatto nei laboratori della non-scuola abbiamo raccolto le voci di alcuni dei giovani protagonisti che hanno debuttato al teatro Rasi di Ravenna lo scorso 31 marzo e dove resteranno in cartellone fino all’11 aprile. Questa parte di percorso si concluderà infatti lunedì prossimo con lo spettacolo “U.b.u. Alfred Jarry VS. Vladimir Vladimirovic Majakovskij”, una sorta di scontro tra Majakovskij, poeta della rivoluzione, attonito di fronte all’ascesa del Padre Ubu di Alfred Jarry.
Domani, domenica 10 aprile, sarà invece proiettato il film “Una scuola italiana” di Giulio Cederna e Angelo Loy. Il film vede protagonista la “scuola/scandalo” romana Carlo Pisacane, dove gli alunni di origine straniera arrivano a superare l’80% del totale, e per questo identificata dalla stampa e dalla politica nazionale come un ghetto. La riflessione pedagogica di chi ci lavora, il calore che vi si respira all’interno, ma soprattutto gli sguardi e l’amicizia dei bambini che la frequentano la collocano invece dentro la migliore tradizione pedagogica italiana, ponendo tutti di fronte a una domanda: fino a quando vorremmo considerare questi bambini stranieri?
Tra i ragazzi che hanno invece partecipato alla non-scuola nel ravennate, e di cui abbiamo raccolto le testimonianze, troviamo il calciatore e la ballerina, il secchione e il pluri-ripetente, chi legge libri e chi ascolta gli Ac/cd. Ognuno ha una propria biografia che porta sul palco, ognuno com’è, senza recitare una parte, ma entrando a far parte di un coro, di un gruppo che assieme può resuscitare e far saltare sul palco anche le povere ossa di Shakespeare.
“In scena posso esprimere la mia personalità senza paura del giudizio degli altri – spiega Riccardo Zambito, diciassette anni, studente dell’Itis – I difetti danno spunto alla creazione di scene, tutti contribuiscono allo spettacolo”. “La non-scuola è un luogo dove sfogare la pazzia delle parole senza contenere la spontaneità”, interviene uno scalmanato Alessandro Leone. Mentre Kingsley Ngadiuba spiega che, per lui, “il teatro è più vivo della vita stessa, perché nella vita chiunque finge di essere un altro senza saperlo. Sul palco invece fingiamo di essere altri e siamo noi stessi”. “È difficile finire il laboratorio dopo lo spettacolo. È un’esperienza che ti prende e non ti abbandona più” lo completa Piergiovanni Montecavalli.
“Non recitiamo per il pubblico, ma per noi stessi” aggiunge Federico Montanari. “La non-scuola non è un buon modo per imparare a recitare – spiega Francesco Bonaccorso – ma è un modo per vedere in un’altra ottica la vita. Qui possiamo fare cose che pensavo non ci fossero concesse”.
Tra l’aspirante calciatore e la futura ballerina, il secchione e il pluri-ripetente, tra chi legge libri e chi ascolta gli Ac/dc, ogni ragazzo porterà sul palco la propria storia avendo l’opportunità di mostrandosi così com’è, senza interpretare ruoli né indossare alcuna maschera.