Le Notti di SlowMachine. I nostri amori in uno spettacolo aumentato

Notti (ph: Elisa Calabrese)
Notti (ph: Elisa Calabrese)

La compagnia di Belluno è in scena al Teatro Menotti di Milano questa settimana

«Ricordi sbocciavano le viole / con le nostre parole: / “Non ci lasceremo mai, / mai e poi mai” / Vorrei dirti, ora, le stesse cose / ma come fan presto, amore / ad appassire le rose / così per noi».
(Fabrizio De André)

Fino al 7 maggio il Teatro Menotti di Milano accoglie un titolo che, seppur ospitato dal 2021 in numerosi cartelloni di differenti regioni d’Italia, forse non ha ancora ricevuto la dovuta attenzione degli addetti al settore.
Si tratta di “Notti”, uno degli esiti più maturi e rappresentativi della compagnia SlowMachine, istituita a Belluno nel 2014 da Elena Strada e Rajeev Badhan, entrambi nati negli anni Ottanta e accomunati dalla vocazione alla contaminazione delle arti, in particolare di teatro e video.

“Che cos’è l’amore?” è la domanda cardine dello spettacolo, che resta un’indagine aperta sui meccanismi dell’amore, sull’idealizzazione che ne è la matrice e sulla facile disfatta che esso può incassare allo scontro con la realtà – la realtà dell’altro, di sé, del proprio tempo.
Ma qui il contenuto sembra essere travolto e messo a tratti in secondo piano dalla sofisticata costruzione della rappresentazione e dal suo impatto visivo: si assiste, infatti, ad una sorta di spettacolo aumentato, durante il quale una continua metamorfosi della visione si sviluppa grazie al ricorso a videoproiezioni su un telo appena percettibile in proscenio: di conseguenza gli attori talvolta sono sopraffatti dalle immagini, altre interagiscono con esse.

La compresenza tra una dimensione attoriale concreta ed una dimensione visiva parallela ed integrante il racconto non è senz’altro soluzione nuova, ma del tutto originale e seducente è l’amalgama firmato dal regista Rajeev Badhan.

Elena Strada, Ruggero Franceschini e Alberto Baraghini – interpreti intensi ed espressivi -, incarnano i membri di un gruppo teatrale al lavoro su una nuova trasposizione delle “Notti bianche” di Dostoevskij.
Si riuniscono attorno ad una cucina, montata di tutto punto sul palco, con tanto di acqua corrente e pentole sui fornelli in bollitura. Nel tempo in cui si cuoce un risotto, i teatranti discutono dell’attualità dell’opera letteraria ottocentesca e della sua possibile ricezione. Che cosa ci dice oggi il racconto “Notti bianche”, il suo viluppo di sogni e disillusioni, paure e slanci ottimistici, intese e contraddizioni? Che cosa può dire in particolare ai giovani?

A momenti di dialogo e azione se ne alternano altri di videoproiezione, che sul telo fanno scorrere l’interpretazione dell’opera così come i protagonisti se la immaginano e la reciterebbero: ecco che, alla concretezza della messinscena, si sovrappone quindi un secondo piano e binario narrativo, una sorta di surrealtà che rappresenta visionariamente qualcosa che non c’è ancora, o che esiste solo nell’intenzione e nella fantasia dei protagonisti, i quali danno voce e al tempo stesso sono interrogati da un’opera letteraria la cui chiave interpretativa non riescono a far girare nelle toppe della propria esistenza.

Il tempo prosaico e pragmatico che si consuma nella cucina, grazie alle fantasie sul testo e alle prime prove restituite in videoproiezione, si apre così a parentesi di concentrata poeticità: il recitativo, infatti, è perfettamente fedele alla densità filosofica e alla complessità psicologica dello scrittore russo; ma è soprattutto il rapporto tra figure in scena e figure proiettate ad amplificare l’intensità emotiva di questi passaggi: le dimensioni delle immagini variano, fino ad occupare l’intero boccascena, conseguendo sproporzioni dominanti, d’alto valore simbolico e lirico, che dissolvono le sagome degli attori; altre volte, viceversa, grazie alla modulazione della luce sui corpi reali, si ottengono struggenti effetti di compenetrazione o di coesistenza dialettica ed interattiva tra immagine e figura umana.

La drammaturgia, curata dalla stessa Elena Strada, innesta sul contributo letterario di Dostoevskij le suggestioni sociologiche e filosofiche del saggio “Amore liquido” di Zygmunt Bauman.
Il fenomeno delle notti bianche si manifesta nelle località ad elevata latitudine come San Pietroburgo, dove addirittura per 50 notti consecutive il sole non scende mai al di sotto della linea dell’orizzonte, prolungando la sua luce crepuscolare fino all’alba: quattro sono le notti che vivono i personaggi dell’autore russo e in scena ci si domanda quante siano quelle che mantengono magici i nostri amori, prima che finiscano. Il nostro tempo è connotato infatti da parole come “instabilità”, “fragilità”, “precarietà” da una parte, dall’altra “consumo”, “appagamento”, “successo”, “facilità”: in che misura ne risentono le nostre relazioni, la nostra capacità di generare, stabilizzare e rinnovare l’amore?

Molto prima di arrivare al dessert è evidente che il filo metateatrale viene soppiantato dall’altro più propriamente narrativo a cui è intrecciato: le domande aperte dal confronto con l’opera letteraria si rivelano un pretesto per far detonare le tensioni della coppia interna al gruppo. Seguendo lo sviluppo di questo nucleo narrativo, l’uso delle videoproiezioni cambia, e sul telo scorrono video live, realizzati a volte da una videocamera professionale, altre da uno smartphone, che ci catapultano più da vicino verso ciò che accade in cucina: sono i volti in particolare ad essere ingranditi, i sorrisi, la delusione, l’attesa, accentuando pathos e suspense e sollecitando un’impotente empatia.

Il terzo livello narrativo porta in scena, in forma di testimonianza videoregistrata, il destinatario privilegiato della rappresentazione che i tre vanno immaginando, per la maggior parte del tempo soltanto citato: all’improvviso un gruppo di adolescenti bellunesi risponde con la propria faccia, oltre che con le parole, alla domanda “che cos’è l’amore”. E le loro risposte sembrano paradossalmente ricondurci ad una visione analogica, non per questo esente da idealizzazioni: l’amore esclusivo, l’amore invincibile e resiliente, l’amore responsabile di cura, l’amore come fortuna ma anche consapevolezza.

L’intreccio fitto tra questi tre nuclei fa sì che ovviamente non si pervenga a nessuna risposta univoca alla domanda clou, ma si sollevino altri interrogativi, tra i quali il singolo spettatore potrà riconoscere quello che maggiormente lo riguarda.
Sicuramente ci chiediamo quanto, del sognatore russo o di quello sguardo adolescente, sia rimasto nella coppia che nel finale si separa. Oppure quali nodi in cui le nostre rigidità si contraggono hanno davvero a che fare con l’altro, o piuttosto lo coinvolgano e travolgano: la nostra forma mentis consumistica, un’incertezza altrettanto costituzionale perché epocale, l’impazienza dei bisogni, l’ansia di opportunità e libertà, l’esperienza traslata su altri piani ci distaccano dal reale.
Sono i mezzi di comunicazione a cambiarci oppure soltanto il tempo o l’età? Oppure ancora un’ottica troppo scheggiata con cui guardiamo il mondo, o una sensibilità troppo oppressa e ferita che chiede un’inesauribile protezione?

Qualche cortocircuito di senso viene sottolineato dalle musiche originali di Davide Rizzardi, capace di alternare momenti psichedelici ad altri di rispettosa delicatezza.
Alcune linee della drammaturgia possono apparire incompiute o estemporanee: ad esempio la voce dei giovani si fa percepire in un’incursione troppo breve, oppure alcuni concetti pregnanti si limitano ad essere accennati, mentre avrebbero meritato una verifica più puntuale nella relazione portata in scena e poi sciolta; ma l’intenzione della produzione sembra aver puntato appositamente su un risultato interlocutorio più che definitorio, suggestivo più che rappresentativo in senso stretto: un’opera aperta, che lo spettatore completa da sé, forse altrove rispetto alla platea.

Con questo titolo si è conclusa, il 29 aprile, l’ottava edizione della rassegna Miraggi del Teatro Comunale di Belluno, che la stessa compagnia organizza in collaborazione con la Fondazione Teatri delle Dolomiti e il Comune.
Grazie a SlowMachine, in questa città ai piedi delle Dolomiti, sono transitati protagonisti di grande rilievo del teatro contemporaneo: Familie Flöz, Agrupacion Senor Serrano, Chiara Guidi, Roberto Latini, Motus… e si potrebbe continuare con un lungo elenco di nomi che più in generale nell’area veneta hanno sporadica circolazione.
La progettualità di SlowMachine è risultata senz’altro coraggiosa e raffinata per sensibilità, vista la capacità di coniugare innovazione scenica e leggibilità: un pubblico numeroso ed eterogeneo sembra aver premiato quest’audacia e la qualità teatrale. Ma ad oggi la prosecuzione della collaborazione con gli enti bellunesi pare a rischio, ed incerto il futuro della prossima edizione di Miraggi, con una perdita che non riguarderebbe esclusivamente la città ma una più ampia regione.

NOTTI
Regia, luci, video, musiche: Rajeev Badhan
Drammaturgia: Elena Strada
Con: Elena Strada, Ruggero Franceschini, Alberto Baraghini
Assistente alla produzione: Alex Paniz
Scene: Rajeev Badhan/Elena Strada realizzate da Matteo Menegaz
Direttore della fotografia: Federico Boni
Produzione SlowMachine con il sostegno di Fondazione Teatri delle Dolomiti, FUNDER 35, Fondazione Cariverona

durata: 1h 15′
applausi del pubblico: 1’ 30’’

Visto a Belluno, Teatro Comunale, il 29 aprile 2023

 

 

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