Incontriamo virtualmente Massimiliano Burini, della compagnia umbra Occhisulmondo, regista e drammaturgo con cui proseguiamo oggi il nostro discorso su questo tempo sospeso.
La compagnia si fa notare al Premio Scenario Infanzia nel 2012 con “Quando c’era Pippo” e successivamente, nel 2014, con “Greta La Matta”, spettacolo che fonda in modo potente e suggestivo il teatro di figura con la danza.
Sempre del 2014 è lo straordinario risultato di “Un Principe”, riscrittura visionaria dell’Amleto di William Shakespeare.
Gli ultimi due spettacoli sono “Il mio amico Frankie” e “Teoria del Cracker”, mentre è in creazione “Il Nero”, rivisitazione contemporanea dell’Otello.
Cosa potremmo imparare dalla situazione che stiamo vivendo?
Da quando tutto questo è cominciato, c’è una cosa che mi è subito sembrata evidente: il Covid-19 non è una malattia che ci “rende tutti uguali”. I deboli, gli anziani, i poveri sono quelli che subiscono in maggior numero. E dopo di loro tutto quello che è fragile. In questo silenzio generato, che come artista credo sia l’unica cosa da mutare poi in azione, si contrappone l’ormai “restate a casa” indotto da un’imposizione nazionale, al più profondo concetto dello “stare” fermi. Quest’ultimo mi ricorda la condizione tanto ricercata nel campo del teatro dello “stare” appunto; condizione, spazio di tempo, dove si può andare al fondo dell’immobilità, esplorarla, scavando, cercando dentro se stessi. E’ forse per vocazione, che in questo addentrarsi, il mio pensiero è andato al teatro. Con l’arrivo di Covid-19 ogni ambito della nostra società ha subito un colpo durissimo, ma per il settore culturale e in particolare per il teatro il colpo è stato devastante. Abbiamo perso il lavoro, non vediamo vie di uscita e siamo preoccupati per la nostra stessa sopravvivenza.
In queste condizioni terribili il rischio, a mio avviso, è quello che ognuno difenda coi denti il proprio orticello, agendo secondo la logica mors tua vita mea. La guerra tra poveri è alle porte? Vogliamo sopravvivere per sopravvivere, al di là che le nostre azioni abbiano senso o meno. Questa paura, questo senso di inadeguatezza, questo limite sul baratro, ci porta all’esagerazione, al gridare al mondo intero “noi ci siamo” esistiamo, non dimenticateci, forse comprendendo con amara inquietudine di non essere così fondamentali, di non essere così richiesti, desiderati, amati.
Il web si inonda di iniziative, come se mancassero già i contenuti; azioni dove chiunque e in qualsiasi modo, nascondendosi dietro una proposta artistica, grida in realtà la sua paura, il suo disagio, comprendendo in un attimo la sua marginalità. Dirette, letture, canzoni, tutorial o suggerimenti creativi. Forse questo è il momento di farsi da parte e usare questa opportunità per riflettere su quale esattamente sia la nostra funzione.
Antonin Artaud nel 1926, nel suo primo manifesto del théatre Alfred Jarry, scrive: “Il teatro è la cosa più difficile da salvare al mondo. Un’arte del tutto basata su un potere di illusione, che essa è incapace di suscitare, non ha che da scomparire”.
Ma cosa rischiamo di perdere davvero? Cosa c’era prima di tutto questo? Nel 2015 Massimiliano Civica e Attilio Scarpellini scrivono “La fortezza Vuota” da cui mi piace riportare alcuni dati che inquadrano perfettamente questo prima. Prima di Covid-19 il sistema teatrale funzionava cosi: “Nessun teatro sarebbe potuto sopravvivere senza il finanziamento pubblico. I Teatri Nazionali e i Tric erano, infatti e nei fatti, le uniche strutture che avevano le economie e i fondi da spendere, e quindi una concreta opportunità di svolgere una politica culturale. I Centri di Produzione, i Festival e le Residenze Teatrali non avevano reali economie necessarie per la produzione e la circuitazione degli artisti e dei loro spettacoli: non c’era quindi un vero interesse verso una “teatralità diffusa”. Nel teatro finanziato, il pubblico era una variante ininfluente. Le compagnie di ricerca non potevano per legge essere prodotte da un Teatro Nazionale e, nei fatti, non conveniva loro essere prodotte da un Tric. I loro spettacoli non avevano più un mercato: le compagnie autonome e di ricerca (la parte più viva e vitale del teatro italiano) erano state azzerate dal Ministero”.
“A “fare” il teatro italiano bastavano i direttori dei grandi teatri. Essi decidevano della popolarità, della visibilità e del successo degli artisti. Esercitavano questa prerogativa decidendo quali spettacoli produrre, quali mettere in abbonamento e quali far circuitare e scambiare”.
Prima di Covid-19, “il 70% del finanziamento pubblico che veniva assegnato al teatro era assorbito dalle spese di gestione della “macchina” e solo il 30% andava nella produzione di spettacoli. Tutto questo era giustificato, perché il compito di un teatro non era quello di mettere i registi e gli attori nelle condizioni migliori per creare begli spettacoli, ma di dare uno stipendio a chi veramente lavorava: i direttori e il personale non artistico. Nella maggior parte dei casi il personale artistico era quello meno tutelato, pagato e protetto in assoluto.
C’erano registi e attori pluripremiati, che non vivevano della loro “professione”. In realtà, per i più fortunati e famosi, la vera professione esercitata era quella dell’insegnante: vivevano facendo stage e laboratori. Per la maggior parte degli altri, fare uno spettacolo era solo un’interruzione momentanea dal lavoro part time”.
Prima di Covid-19 la piramide era rovesciata. Se infatti immaginiamo una piramide il cui vertice è occupato da artisti e spettatori, e la base dai teatri e i loro direttori, si assiste ad un incredibile paradosso: i due soggetti fondamentali (artisti e spettatori) espulsi dalla vita teatrale.
La gran massa dei lavoratori artistici non riusciva ad avere una entrata mensile certa e, quasi nessuno, a fine anno, riusciva a mettere da parte qualche soldo: vivevano a rimborso spese. Nessuno di loro avrebbe mai avuto una pensione.
Allo stato delle cose quindi, noi artisti e pubblico di cosa dovremmo avere nostalgia? E’ evidente che questo “prima” aveva perso di vista la vera funzione del teatro, è evidente che non esisteva un vero interesse né a creare un mercato, né una risorsa economica per il Paese, né una dignità per chi questo lavoro lo rendeva davvero nei fatti possibile: gli artisti.
Cosa dovremmo aspettarci dal futuro?
Probabilmente nulla. E’ risaputo ormai che gli uomini non fanno mai tesoro delle esperienze della vita; la Storia ce lo insegna. Quello che accadrà probabilmente è che il sistema, quello conosciuto prima di Covid-19, sopravvivrà e non solo, farà in modo di sopravvivere tentando in qualche modo di raschiare il barile, di fare “rete”, come si suol dire, di non perdere quel poco che ci sarà oramai da mangiare. E gli artisti? Come prima se non peggio, saranno ai margini, lasciati su una linea, pronti a fare qualsiasi cosa pur di restare li, in qualche modo.
Oppure potrà succedere l’incredibile. Che questa piramide si rovesci. Che il pubblico senta la nostalgia di alcuni di noi, e che torni a chiedere di vivere insieme un momento collettivo, che gli artisti trovino un riconoscimento concreto dallo Stato prima e dal teatro poi, che il teatro come luogo non si presti solo ad alzate di sipario, ma si offra come luogo per la comunità, aperto per incontrarsi, studiare, leggere, discutere, che torni ad essere insomma il centro di una rinnovata polis.
Quando Covid-19 ci avrà lasciato, dimostreremo davvero che cosa siamo. Perché la storia dà possibilità, ma non possiamo sapere se questa è l’ultima. Personalmente non so che cosa accadrà, di certo vedendo quanto sta succedendo sul web, sono certo che questo non può essere il futuro del teatro, e mi ritornano in mente le parole di Silvio D’amico: “Il teatro vuole l’attore vivo, e che parla e che agisce scaldandosi al fiato del pubblico; vuole lo spettacolo senza la quarta parete, che ogni volta rinasce, rivive o rimuore fortificato dal consenso, o combattuto dalla ostilità, degli uditori partecipi, e in qualche modo collaboratori».
Le parole che hanno cambiato di significato.
Emergenza, paura, contagio, restrizioni. Sono le parole che sentiamo ogni giorno rimbalzare negli articoli di giornale, in tv nella bocca di chi sta informando o gestendo la crisi. Tutte le ansie, le contraddizioni, i principi, i valori della società contemporanea si sono radicalizzati. Tutto è alla rovescia, la distanza fra le persone è più indicata che non il contatto dei corpi, l’isolamento è meglio della socialità, stare a casa è meglio che uscire, la rete sostituisce la piazza, l’online prende il posto del cartaceo. Una delle cose che a mio avviso pesa di più è questa imposizione di tenere la distanza, anche fra i familiari o all’interno della coppia. Tenersi a distanza significa allontanarsi anche affettivamente, e viceversa. Ogni distanza ha un significato. Quel che sta succedendo oggi, dunque, è che cambiando le distanze cambiano pure i significati. Vogliamo bene a persone che stanno a tre metri da noi: ma di che affetto si tratta davvero?
Penso che tre termini saranno messi sotto grande esame in relazione a tutto questo, tre termini che contengono azioni, che solo a pronunciarli evocano immagini e momenti che descrivono l’essenza degli uomini e della nostra società. Abbracciare: riusciremo ancora ad abbracciarci? Sembra impossibile adesso e forse ci resterà addosso un impaccio innaturale, riflesso di una diffidenza prossemica che non riusciremo a sciogliere immediatamente. O forse abbracciare qualcuno diventerà un rito propiziatorio per esorcizzare il passato. Mani: torneremo a stringerci le mani prima e dopo un incontro di lavoro? Cosa succederà quando ci presenteremo a una persona nuova? Quando dovremo fare una carezza? Casa: è bastato poco per snaturare questa parola. Il rifugio per eccellenza, il luogo intimo, lo spazio del privato che protegge affetti, interessi, passioni, pensieri e ritualità. In queste ore gli angoli delle nostre case sono il fondale delle nostre chiamate in video. Non appena saremo fuori, finalmente fuori dalle nostre case, dovremo saper ritrovare le nostre solitudini confidenze dietro la porta che si richiude.
Cosa ne pensi di un vostro spettacolo proposto in streaming?
Il teatro esiste solo nella compresenza di attore e spettatore, il teatro è ciò che avviene tra lo spettatore e l’attore, ci dice Grotowsky. Pertanto non è pensabile, e nemmeno auspicabile, immaginarlo. Il mondo del teatro sembra essersene dimenticato, non vuole accettarlo. Eppure per anni ci siamo sentiti dire che “il teatro in video non si può vedere”, “non vedo video di spettacoli, fammi sapere quando sei in scena che vengo a vederti”.
Che cosa è successo adesso? Ho la sensazione che ci sia un tentativo ridicolo e decadente di non accettare l’inevitabile: il Titanic sta affondando e qualcuno continua a suonare.
Il video è il luogo del cinema, di quell’arte. Lo spettacolo non è il teatro, lo spettacolo è il mezzo con cui si costruisce un fine, qualcosa legato al sacro che non può prescindere da una scoperta di sé stessi e dell’altro. Dobbiamo accettare questo, e se non riusciremo ad uscire da questa situazione pensando di salvare questa fragilità, allora dovremmo semplicemente fare altro, forse toneremo alla radio, dove il racconto, la voce, la musica, potranno quanto meno evocare l’immaginario.
Immagina in poche righe un Amleto contemporaneo che deve combattere non con lo zio ma con il Coronavirus.
Italo Calvino scrive “un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso”. Perché sconfina, perché è oltre. Perché è sopra ogni catalogazione. Sconfigge le mode. E parla all’uomo, con l’uomo e dell’uomo. Di oggi e di ieri. Insomma, di ogni epoca. Personalmente credo che non ci sia bisogno di dover immaginare Amleto in una condizione cosi “quotidiana”, credo che compito del contemporaneo sia piuttosto lavorare sui codici di rappresentazione, su quelle metamorfosi linguistiche, semantiche e di rapporti spaziali, addirittura prossemici, che nel vederli e sentirli, nel viverli come pubblico presente, ci darebbero “crudelmente” la sensazione che stiamo provando senza retorica. “Potrei vivere in un guscio di noce e tuttavia ritenermi signore d’uno spazio sconfinato”.
Quali misure auspichi per la tua compagnie dopo questa emergenza?
Occhisulmondo è una compagnia che esiste da 10 anni. E’ un gruppo di artisti che lavora insieme, in modo continuativo da un decennio. Ognuno di noi, nel corso del tempo, ha superato momenti difficili, personali e di gruppo. Nell’arco di tutto questo tempo abbiamo fatto delle scelte radicali, abbiamo scelto di lavorare in una regione lontana dal clamore e dalla visibilità teatrale. Abbiamo adottato modalità produttive lente, spesso auto-prodotte. Questo per proteggere un’idea, una visione, uno spirito che ci ha permesso di restare insieme, di amare follemente il teatro.
Abbiamo costruito un repertorio, convinti che un lavoro non si esaurisca nel tempo di una stagione, ma che al contrario continui un suo cammino personale, permettendoci di continuare la nostra ricerca con il pubblico ad ogni replica.
Il sistema teatrale, per come è stato concepito fino ad ora, vedeva queste modalità ai margini, sulla soglia. In questa situazione cosi difficile non è a rischio la nostra idea di teatro, né la nostra produzione artistica, che al contrario è li pronta per ripartire. Quello che è a rischio è la nostra identità di artisti e lavoratori dello spettacolo, la nostra sostenibilità economica. Come lo Stato e le Regioni gestiranno questo grande problema è l’interrogativo che ci poniamo.
Stiamo, nel nostro piccolo, immaginando delle soluzione che suggeriremo ai nostri rappresentanti regionali, soluzioni tecniche che, mentre pensiamo possano aiutarci a sostenere il presente, crediamo possano suggerire anche il futuro del nostro comparto, almeno in regione.
Stiamo immaginando, nella malaugurata ipotesi che non si riparta entro la fine dell’anno, a circuitare con i nostri spettacoli, di lavorare costruendo progetti radiofonici, e ibridando il linguaggio cinematografico dell’animazione grafica e della narrazione, costruire dei format didattici per le scuole… Continueremo la nostra ricerca in questo nuovo tempo che verrà.