Dal 4 marzo il Théâtre de l’Odéon–Théâtre de l’Europe è occupato. Sede della compagnia dei “comédiens-français” tra il 1782 et il 1793, simbolo del “maggio francese” con una lunga occupazione che costò cara al direttore Jean-Louis Barrault, ridiventa oggi, dopo un’altra occupazione nel 2016 più effimera ma vincente, il luogo simbolico da investire per dare vita ad un movimento di lotta.
Questa volta, tuttavia, il contesto non potrebbe essere più diverso. La pandemia ha colpito duramente ovunque nel mondo, non risparmiando per nulla la Francia di Emmanuel Macron e dei “gilets jaunes” – si legga: del neoliberismo più violento e autoritario ma anche della resistenza popolare più spontanea, non inquadrabile nelle logiche della rappresentazione parlamentare ed altrettanto violenta. Anzi, forse qui più che altrove in Europa, la pandemia ha mostrato quanto i ceti più precari siano davvero i più fragili, col sistema sanitario francese pubblico strutturato su mutue private che esclude molti; con l’incapacità delle industrie farmaceutiche nazionali a produrre vaccini o materiali di prima necessità; con un processo di esternalizzazione dei servizi sanitari, di chiusura di reparti e di licenziamenti di personale sanitario perseguiti al fine di ridurre, sempre e nonostante tutto, la spesa pubblica.
È in questo contesto di sostanziale ristrutturazione del Paese in chiave iperliberista (di attacco quindi alle libertà civili e politiche: si veda la “Loi Sécurité globale” e l’avvicinamento del governo alle posizioni e ai discorsi della destra di Marine Le Pen; di progettata e prolungata precarizzazione dei settori pubblici: riforma della scuola e dell’università; di stretta sui diritti sociali acquisiti e sul sistema del welfare: riforma del sistema di sostegno alla disoccupazione) che il settore altamente simbolico della Cultura si risveglia.
Ed attualmente sono cinque i teatri pubblici ad essere occupati: oltre all’Odéon, il Théâtre de la Colline, il Théâtre national de Strasbourg occupato dai suoi studenti, L’Opéra de Pau e la Scène nationale de Châteauroux – ma qualcosa sembra muoversi, proprio ora, anche a Lione, dove il Théâtre national populaire ha già espresso la sua vicinanza al movimento e l’Opéra de Lyon ha saputo che vedrà le sue sovvenzioni, in realtà già approvate, diminuire. Inoltre, pare che anche il CDN di Besançon stia per essere occupato.
È da notare che, ad occupare, sono in prevalenza i sindacati della CGT spettacolo (che dovrebbe essere l’omologo della nostra CGIL, ma con quest’ultima la CGT francese non ha nulla a che vedere, né nell’indirizzo politico né nell’organizzazione interna), la categoria degli “intermittents” e gli studenti delle scuole di teatro.
Il terrore e il torpore di mesi di pandemia e di riduzione forzata della libertà di manifestazione e di riunione in pubblico non ha in realtà impedito fino ad oggi, a Parigi in modo particolare, forme di protesta. Al contrario, manifestazioni, cortei o “rassemblements” si sono susseguiti a singhiozzo negli ultimi mesi – al di là dei rischi della propagazione del virus –, con l’ormai abituale violenza gestita ad arte dal temibile prefetto di Parigi Lallement.
Il mondo della Cultura e del teatro pubblico non aveva, però, alzato ancora la voce. Del resto, in Francia la superiorità del pubblico sul privato – situazione ben più complessa nei fatti, ma sostanzialmente garantita negli ordinamenti e nei meccanismi di consacrazione simbolica – ha permesso, da una parte, a tutti i direttori di rispettare i contratti nell’immediato e di programmare per il futuro; dall’altra, agli “intermittents” dello spettacolo di ottenere, nell’immediato, una “année blanche”. In sostanza, per il primo anno di pandemia, questa categoria di lavoratori non dovrà giustificare alcuna attività minima per poter beneficiare di un salario e di diritti sociali.
La protesta esplode ora, cioè nel momento in cui scade la garanzia dei diritti degli “intermittents”, e in cui la maggior parte dei direttori dei “Centres dramatiques nationaux” dei teatri nazionali (organismi simili ai Teatri Stabili italiani) e del Festival d’Avignon devono essere rinnovati. Insomma, la protesta della Cultura esplode adesso perché si avvicina il momento in cui la massiccia restaurazione neoliberista di Macron dovrà occuparsi di questo settore, una ristrutturazione perseguita, per altro, con piglio “termidoriano” dal suo governo, con la Ministra della Ricerca Vidal che accusa una parte degli universitari di essere “islamo-gauchistes”, riprendendo una formula dell’estrema destra; o ancora col Ministro degli Interni Darminin, già accusato di violenza sessuale, che si vanta di essere più duro di Marine Le Pen.
E’ quindi importante sottolineare che questa protesta, la sua attuale ampiezza e quindi la sua probabile durata e ripercussione nazionale non sono da ridurre alla semplice apertura/chiusura dei luoghi di cultura. Certo, gli slogan servono a reagire al fatto che, anche in Francia, la cultura in sostanza è stata considerata “non essentielle”, dunque sacrificabile. Ma le rivendicazioni espresse dal movimento, superficialmente diverse per ogni occupazione, sono concordi sul fondo: prolungare l’“année blanche”, garantire diritti sociali a sostegno di lavoratrici e lavoratori precari, siano essi maestranze, autrici e autori o artisti, e infine esigere una pianificazione degli investimenti pubblici nella Cultura, a partire proprio dal diritto al lavoro.
Ce n’è insomma abbastanza per mettere in discussione l’impianto della politica neoliberale non solo francese, ma europea.
Detto questo, c’è anche un elemento storico da mettere in rilievo per poter comprendere perché in Francia la battaglia simbolica per la Cultura può diventare una battaglia di più ampio respiro e, se ne avrà la forza, unirsi a quella degli altri settori della società.
Lo studio della storia della costruzione del modello dell’“eccezione culturale francese” implica lo studio dell’invenzione di dispositivi di Stato progressivamente costruiti per garantire, nello spirito del secondo dopo guerra e nel ricordo del Fronte Popolare, l’accesso al patrimonio culturale della nazione, per definizione borghese, alla massa.
Allo stesso tempo, a partire dal 1959 e con la nascita del governo Malraux, significa anche indagare come il potere gaullista ha potuto garantire il diritto alla ricezione e alla produzione culturale, ma inglobandolo in dispositivi in grado al contempo di ridurre i conflitti sociali. Difendendo ma perseguendo, in un quadro istituzionale, un ideale di “democratizzazione della cultura” sostanzialmente condiviso dagli artisti, dalle organizzazioni politiche e sindacali e dal pubblico dei teatri sovvenzionati.
Verso la metà e la fine degli anni Sessanta questo modello, giudicato paternalista, è stato messo in discussione da una critica accademica di stampo sociologico, in seguito ripresa ed ampliata da una critica politica che culmina con il movimento del ‘68. A partire da un quadro politico e sociale profondamente modificato, attraverso un periodo di tensione con i governi della destra giscardiana, susseguitisi al fallimento politico della rivolta del ‘68, gli artisti hanno rivendicato il carattere essenzialmente emancipatore del lavoro creativo e chiesto il “potere”. Questo “potere”, ossia la gestione diretta e indipendente dei centri sovvenzionati, l’hanno ottenuta, ma al contempo, lo Stato ha potuto proseguire nella sua gestione e nel suo controllo di questi luoghi, privilegiando sempre di più il valore patrimoniale del lavoro degli artisti a discapito dell’inclusione del pubblico popolare.
L’arrivo al potere di Mitterand e del suo potente Ministro della Cultura, Jack Lang, negli anni Ottanta cambia ancora le carte in tavola, perché all’accesso al patrimonio della nazione del “plus grand nombre” si privilegia l’accesso alla creazione di tutte e tutti, e il riconoscimento istituzionale delle sottoculture. Tuttavia questo passaggio segna anche un “tournant gestionnaire“, ovvero un ripensamento del modello di funzionamento e di gestione (soprattutto amministrativa) dei luoghi di produzione pubblica della Cultura. In breve, l’obiettivo è quello di assorbire il divorzio tra cultura ed economia, e artisti, registi e autori diventano, dagli anni Novanta, progressivamente direttori di aziende pubbliche.
Ovvio, le cose sono immensamente più complesse di come le si possono sintetizzare, chi scrive ne è ben consapevole. Ma è forse con la coscienza di questa storia lunga e complessa che si possono meglio inquadrare i conflitti, le incomprensioni e le contraddizioni dell’attuale sistema culturale di Stato francese. Al quale va il grande merito di avere invertito, per ciò che concerne il mercato culturale, la legge della domanda e dell’offerta: qui, l’offerta culturale sostanzialmente precede la domanda, rendendo forse incomprensibili certe proposte indegne (sul genere di quella del “Netflix della cultura”). Certo, la logica della superproduzione di beni culturali e della loro più ampia circolazione resta intatto; anzi, negli ultimi anni, ai centri sovvenzionati viene chiesto un lavoro di azione sociale sui e nei territori molto al di fuori della missione originale di tali centri, in una logica, talvolta paradossale, di massimizzazione della spesa pubblica. Quindi, da una parte gli artisti hanno il diritto/dovere di creare quanto più possibile per sé stessi e per la nazione; dall’altra, operatori e animatori culturali devono diventare anche operatori sociali e vegliare alla coesione dei territori.
In tale contesto – irto di contraddizioni e mai veramente riassumibile in qualunque sintesi – si può forse comprendere un po’ meglio perché, per i lavoratori francesi di questo settore, sentirsi dire di essere “non essentiels“, significa il crollo di una fede, di una “religione di Stato” (come fu definita da Marc Fumaroli, importante accademico liberale conservatore) mai smentita, in fondo. Inoltre, l’indiscussa egemonia del neoliberismo ha fatto progressivamente diventare i centri sovvenzionati dei luoghi funzionali alla riproduzione di questa stessa logica egemonica: l’emancipazione insita nell’atto creativo non basta più a vincere le logiche gestionali da “énarques” (gli alti amministratori dello Stato, formati dalla scuola dell’ENA, classe alla quale appartiene, per esempio, l’ex Commissario europeo per gli affari economici e monetari Pierre Moscovici).
È all’interno di questo rigido quadro di azione che oggi sono costretti i direttori dei teatri pubblici francesi, certo con dei margini di libertà e di azione da non sottovalutare, con le DRAC (Directions régionales d’Affaires culturelles) attente a garantire piuttosto il valore e l’indipendenza dell’atto creativo di tali artisti. E’ tuttavia solo in questo quadro più ampio che possiamo comprendere perché molti dei progetti di direzione di questi centri, l’ultima volta rinnovati nel 2014, sono naufragati. Ed è significativo che i primi progetti ad essere falliti siano stati proprio quelli portati da autori-registi-creatori dichiaratamente marxisti.
L’esempio più evidente è quello della direzione del Théâtre d’Aubervilliers di Marie-José Malis (ma si potrebbero analizzare i conflitti alla Comédie de Béthune o al Théâtre national de Nice). Questa direttrice, sostenuta dal professore di Storia ed Estetica del teatro Olivier Neveux e dal filosofo Alain Badiou, entrambi militanti comunisti, ha dovuto affrontare un conflitto sindacale nato in seno alla sua stessa squadra. Certo, in questo caso è stato il suo modello di gestione ad essere messo in discussione, ma il problema, evidenziato anche nei conflitti nati in altri centri teatrali pubblici, è la sostanziale contraddizione tra un progetto culturale altamente progressista, o addirittura rivoluzionario nel caso di Malis, e un quadro gestionale rigido e ristretto in una logica del profitto e dell’efficienza.
Sono in parte gli stessi militanti della CGT, che hanno contestato e messo in pericolo i programmi di quei direttori/creatori progressisti, che ora occupano i teatri. Dal canto loro, gli stessi direttori/creatori oggi pare cerchino di riunire i colleghi, sapendo sia che i tempi sarebbero maturi perché la Ministra della Cultura Roselyne Bachelot-Narquin ascolti le rivendicazioni della professione, sia che questo modello, spesso inefficace a raggiungere tanti pubblici o ignorato da ampi settori di molte classi sociali (anche quella borghese e alto borghese), va ristrutturato.
Indiscrezioni che ci sono arrivate direttamente dagli occupanti dell’Odéon vorrebbero che proprio nei prossimi giorni venga organizzata una riunione dei direttori dei centri teatrali sovvenzionati. Del resto, questa era una prospettiva già delineata, a chi scrive, dalla direttrice della Comédie de Béthune Cécile Backès in occasione di una recente intervista.
Dunque, è ora necessario prendere atto del sostanziale (ma non certo irrimediabile) divorzio che si è da lungo tempo consumato tra i creatori/direttori e la parte più militante o organizzata dei lavoratori teatrali. Inoltre, si deve sottolineare la volontà degli occupanti di colpire al cuore il modello politico di Macron – non a caso gli occupanti dell’Odéon se la prendono contro la riforma della disoccupazione voluta dal Presidente – e di costruire una larga convergenza con altri movimenti di lotta. Aggiungiamo anche che, in modo non omogeneo ma neppure contraddittorio, tutte queste occupazioni sembrano rivendicare l’esperienza di lotta, molto dura, dei gilets gialli.
A partire da questi elementi, si potrebbe concludere che la prima difficoltà per questo movimento è rappresentata dalla creazione di un fronte comune coi direttori, in grado di superare vecchi conflitti e contrapposizioni ma, al contempo, di prendere in conto l’interesse particolare dei direttori. Sarà inoltre necessario che, da questo movimento di lotta altamente simbolico, nasca un fronte comune, accompagnato da una proposta politica forte, in grado di mettere in discussione la politica di Macron. Infine, questa lotta nazionale e questa proposta alternativa potrebbero non bastare: un sostegno ed una coordinazione europea sarebbero necessarie, poiché questo movimento non esprime nient’altro che una drastica inversione di marcia della politica europea globale.
La crisi pandemica ha mostrato che l’ideale di un’“Europa della cultura” era fatto “della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni”, e venuto meno il tessuto economico che teneva insieme questo ideale, ogni solidarietà effettiva, gli scambi e la collaborazione sembrano venuti meno. Questo non vuol dire, tuttavia, che altri sogni non possano essere costruiti, sogni nuovi, fatti di una materia diversa.