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Oltre l’ovvietà del consenso. Il Goldoni di Antonio Latella

Il Servitore di due padroni di Latella|Roberto Latini e Federica Fracassi|Antonio Latella

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Roberto Latini e Federica Fracassi
Roberto Latini e Federica Fracassi nel Servitore di due padroni (photo: Brunella Giolivo)

Per fare teatro ci vuole coraggio. Anzi, ci vuole coraggio tre volte.
La prima decisione coraggiosa è quella di fare teatro. Da cento anni circa si continua a ripetere che il teatro è morto. È morto con l’invenzione del cinema, è rimorto con la diffusione della tv, e continua a morire ogni giorno. Nonostante questo, c’è ancora chi non ascolta queste parole e si ostina a fare del teatro la propria vita.

La seconda volta che bisogna avere coraggio è quando si decide di percorrere nel teatro una propria strada, che non è quella già pulita e asfaltata della consuetudine e nemmeno quella tracciata dai grandi maestri. Questo non è semplice, perché si va in qualche modo a disturbare una abitudine, si pungola lo spettatore, che troppo spesso non ha voglia di cimentarsi con il nuovo, ma preferisce accomodarsi nella tranquillità della eterna ripetizione.

Questi due atti di coraggio però ancora non bastano per creare un vero teatrante, serve ancora un terzo coraggio: il coraggio di mantenere dritta la rotta. Di tenere salda la barra verso la direzione che si è scelta, nonostante il vento e le correnti avverse. Anche se il pubblico protesta e i critici bofonchiano nel silenzio delle loro redazioni.

Antonio Latella è un vero teatrante. Ha avuto coraggio e continua ad averlo. Il suo lavoro non piacerà a tutti, alcuni ne saranno anche disturbati, ma ha indubbiamente un valore.

E’ stato in scena al teatro Alighieri di Ravenna fino a ieri, ed è in arrivo a Bologna, Arena del Sole, dal 16 al 19 gennaio (e poi ancora al Metastasio di Prato dal 30 gennaio al 2 febbraio) il suo “Il servitore di due padroni” di Goldoni, in cui francamente se ne è infischiato (per citare il titolo di un suo celebre spettacolo che è anche in gara per il Last Seen 2013) del capolavoro di Strehler.

A Venezia il pubblico si era infuriato, aveva fischiato e abbandonato il teatro. A Ravenna, dove lo spettacolo è andato in scena nella nuova versione, accorciata e rimaneggiata, il pubblico si è spaccato. Un terzo ha abbandonato la sala prima della fine, un terzo è rimasto ponendosi delle domande, un terzo (i più giovani) ne sono stati entusiasti.

Antonio Latella

Abbiamo avuto il piacere di incontrare di nuovo Latella per parlare anche del suo Goldoni che divide. Ecco cosa ci ha rivelato.

Lei è considerato una delle voci più autorevoli del teatro di regia italiano in Europa. Come vede il futuro della regia nel nostro Paese?
Più lavoro all’estero e più mi rendo conto che l’Italia è piena di talenti a cui forse non viene data la possibilità di crescere e di attraversare errori per trovare una lingua, un alfabeto attraverso cui esprimersi e quindi essere, con il tempo, leggibile da più spettatori, e non solo da nicchie di uomini preparati a ciò che viene definito teatro di ricerca.
La ricerca, questa terribile parolaccia, spesso relegata in spazi sempre più “off”, non può e non deve essere per pochi; la ricerca deve stare sui palchi istituzionali per aprire nuovi linguaggi e dare ai registi la possibilità di stare nel tempo in cui essi vivono e non nella memoria di ciò che è già stato visto e si vuole rivedere.
Oggi il regista deve essere coraggioso ed assumere i rischi che il suo lavoro di artista comporta, anche a costo di perdere il favore di una parte del pubblico. I registi che piacciono a tutti sono pochi, si contano sulle dita di una mano, ma è quella rarità toccata dal genio che restituisce un’arte popolare con la “p” maiuscola.
Il futuro del regista sta anche nella capacità di accettare che non si può più vivere la regia in modo novecentesco, con quel commovente retrogusto dittattoriale. Il regista oggi deve sapersi circondare di collaboratori creativi che sappiano anche metterlo in discussione, spingendolo a percorrere sempre nuove possibilità, andando sempre e comunque oltre. Ritengo che questa sia una formula per il futuro.

Nonostante il lavoro fatto da grandi registi – da Strehler, a Ronconi fino a lei – la prosa in Italia soffre della pesantezza di una vecchia idea di teatro statico e di repertorio; mentre il teatro più ragionato e visivo come il suo suscita ancora scalpore: come mai? Accade così anche a Berlino, dove lei lavora da molti anni?
Io amo la parola repertorio, mi piace pensare ad un vero repertorio, ad uno spettacolo che viene programmato e poi riproposto.
In alcuni teatri d’Europa si vedono ancora spettacoli dei vecchi maestri della seconda metà del Novecento che si amano per la genialità che esprimono, ma che va sempre contestualizzata al tempo storico della messa in scena.
Spesso noi ci arrabbiamo con il pubblico, che non ci capisce e non ci applaude o magari contesta un lavoro, ma io credo che il pubblico che contesta sia da ascoltare perché le contestazioni sono sempre meno e raramente puoi capirne le motivazioni; confrontarsi non è facile, anche perché il pubblico, in un teatro di giro come il nostro, è molto vario e queste motivazioni sono tra loro molto differenti.
Può capitare, nel corso di una stagione, che ci sia un titolo contestato: uno dei compiti di un direttore artistico è continuare ad avere coraggio e accompagnare lo spettacolo all’incontro con il pubblico.

Questa volta ha deciso di lavorare su un grande classico del teatro italiano, il Goldoni de “Il servitore di due padroni”, che in Italia è diventato noto al pubblico come l’Arlecchino di Strehler e Soleri. Come si può dare a un classico un taglio contemporaneo senza snaturarlo?

Snaturare un classico per cercare di raggiungerne l´essenza è un compito necessario a dare linfa a ciò che i padri ci hanno tramandato. Non dobbiamo pensare però che i classici siano le riletture della metà del Novecento. Chi ha la presunzione di stabilire che Goldoni (o altri) si debbano mettere in scena sempre nello stesso modo ha smesso di ricercare.

Tutti i protagonisti del Servitore latelliano (photo: Brunella Giolivo)

Per il cast ha scelto i migliori attori della generazione tra i 40 e i 50 anni, da Roberto Latini a Federica Fracassi fino a Elisabetta Valgoi. Crede che la vostra generazione abbia un sentore comune di cosa è (o dovrebbe essere) il teatro oggi?
Questa compagnia è la più grande vittoria: avere un gruppo di attori così diversi e importanti per il loro percorso da artisti, e non per la carriera, è qualcosa di raro sui palchi del teatro istituzionale. Anche Speziani, Franzoni, Pavone, Tedesco, Cacciola e Peraza Rios sono tutti attori che hanno dato e continuano a dare tantissimo al teatro; per fortuna (o sfortuna) non hanno quella popolarità da botteghino che meriterebbero. Li amo perché le loro scelte artistiche e di vita li hanno portati oltre l’ovvietà del consenso.

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