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Ontroerend Goed: il mito del progresso o la minaccia della fine del mondo?

Are we not drawn onward to new erA (photo: Myriam Devriendt)

Are we not drawn onward to new erA (photo: Myriam Devriendt)

Esercizi vari di riapertura, e alcuni – è vero – li abbiamo attesi più di altri, anche se dopo mesi e mesi di palchi e sedie chiuse, nei teatri sembra che ora ci sia qualcosa in più da dimostrare, una necessità più forte e radicale di giustificare quelle ore, quei minuti, di fronte alla vita degli altri.
Abbiamo atteso, insomma, alcuni teatri più di altri, ed è innegabile che proprio la Triennale di Umberto Angelini fosse ai primi posti per aspettative e attese, ben confermate dai primi due debutti del nuovo “volume” di FOG, da poco pubblicato nella città di Milano.

Si torna quindi in scena, al meglio, solo con uno sguardo europeo, e con un’attitudine che chiede la multimedialità, e molto altro.

“Are we not drawn onward to new erA”, della pluripremiata compagnia belga Ontroerend Goed, è dunque la prima risposta a questi più che complessi tempi post-pandemici, ricchi di domande nuove prima sconosciute.
Lavori che abbiano il pregio di riuscire nella creazione di un mondo, di un’alterità tanto possibile quanto desiderabile: è forse questo di cui ora si sente il bisogno, e la risposta della Triennale è quella di sei interpreti in scena, con un albero sul davanti, piantato su un piccolo mucchio di terra, che parlano in una lingua sconosciuta (definita così anche dagli iniziali e fuorvianti sottotitoli in proiezione).
Un nuovo Adamo, uno di loro, si pensa subito, sul palco, in vesti di tutti i giorni – e ci si chiede se davvero fosse vestito così, sempliciotto e un po’ stempiato – coglie l’unica mela dell’albero, ne morde un pezzo, e poi tra gag e discorsi incomprensibili dagli altri personaggi ci si ritrova di lì a poco a veder scendere dal cielo del palco una miriade di sacchetti in plastica, dei più vari colori.

Dopo, con qualche enorme pezzo portato da ciascuno degli interpreti sul mare plasticato appena emerso, verrà innalzata una gigantesca statua raffigurante un uomo, tutto d’oro: è alta tre volte gli attori. Uno si pronuncia nell’unica frase comprensibile, in inglese: “Ragazzi, fin qui abbiamo fatto proprio bene!”. Poi una compulsiva distruzione dell’albero: se ne strappano le foglie, ne vengono spezzati, elemento dopo elemento, tutti i pezzi, e anche l’esile tronco.
Si arriva presto al primo dei due finali dello spettacolo: gli attori, in mascherina FFP2, igienizzano tutto con dei tubi fumanti, e scena e platea scompaiono nella nebbia di questa prima fine.

Una delle attrici rimane tagliata fuori dal sipario, regala un momento di alta poesia, nella penombra arancione di una luce che la illumina, e poi la sua figura si ripete, e parla, proiettata da un video semplicemente perfetto – tanta la resa realistica – poi su un telo bianco, un grande schermo semi-trasparente, in fronte-scena.

Ci si poteva aspettare che finisse tutto qui, e invece è il momento dello spettacolo in cui tutto inizia veramente, in una realtà più finta della prima, apparente. Sul grande telo si vede infatti lo spettacolo a cui si è appena assistito, filmato e riprodotto al contrario. Un replay invertito, riavvolto, in cui la frase dichiarata sul buon lavoro ora suona sconosciuta come quella sentita fino a prima, e si capisce immediatamente che tutto aveva un senso. Si attende quindi che il nastro torni indietro, che l’immagine prenda tutto il suo senso, che il mondo inquinato torni a ripulirsi, fino all’ultimo.

Ecco dunque il contrario della distruzione edenica vista poco prima: ogni attore, anziché lanciare sacchetti qua e là, raccoglie pazientemente tutto e rispedisce le borsette colorate al loro cielo, l’albero che prima veniva distrutto è ora curato e sistemato, addirittura ricomposto – alla perfezione – in modo ovviamente impossibile, con quella mela mangiata che solo qui può essere ingurgitata nuovamente, e riportata appesa, al ramo, incorrotta.

Una struttura geniale, quella appena descritta dello spettacolo (a partire dal suo titolo – palindromo), che salva questo lavoro anche dalle possibili edulcorazioni banalizzanti che il tema dell’impatto ambientale dell’uomo sulla Terra troppo spesso porta con sé.
Poche parole e ben scelte – come nelle migliori poesie – ci hanno consegnato un nuovo punto di partenza, contemporaneo, essenziale, originale, in un lavoro che, accoppiato al masterpiece – “Sorelle” – di Pascal Rambert, ha dato un nuovo via al ritorno delle idee e delle strutture forti, al ritorno a teatro, anche in Italia, finalmente.

Are we not drawn onward to new erA
Regia: Alexander Devriendt
Con: Angelo Tijssens, Charlotte De Bruyne, Maria Dafneros, Karolien De Bleser, Ferre Marnef, Michaël Pas
Drammaturgia: Jan Martens
Scenografia: Philip Aguirre
Luci, suono, video: Jeroen Wuyts, Babette Poncelet
Assistenza tecnica: Seppe Brouckaert
Costumi: Charlotte Goethals, Valerie Le Roy
Composizione: William Basinski
Arrangiamenti: Joris Blanckaert
Rifinitura della statua: Daan Verzele, Jelmer Delbecque, Jesse Frans
Fotografia: Mirjam Devriendt
Stage: Morgan Eglin, Tim De Paepe
Un ringraziamento a: Ilona Lodewijckx, Luc De Bruyne, Matthieu Goeury, Simon Stokes, Björn Doumen, Les Ballets C de la B, coinvolti nel pre-studio ‘koortsmeetsysteemstrook’ al Toneelacademie Maastricht e al fantastico pubblico-test.
La performance mette in scena Disintegration Loops di William Basinski eseguita da Spectra Ensemble
Produzione: Ontroerend Goed
Coproduzione: Spectra, Kunstencentrum Vooruit Gent, Theatre Royal Plymouth, Adelaide Festival, Richard Jordan Productions
Spettacolo in inglese con sovratitoli in italiano e inglese
Con il sostegno della Rappresentanza Diplomatica delle Fiandre in Italia
Foto: © Mirjam Devriendt

durata 1h 20′
applausi del pubblico: 2′ 30”

Visto a Milano, Triennale, il 12 maggio 2021
Prima nazionale

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