Che il palco sia o rappresenti il mondo è persino banale tornare a scriverlo. Certe volte, però, la dichiarazione aperta di questa metafora – o metonimia, se la si guarda dal di dentro, dal punto di vista del processo – fornisce l’abbrivio giusto per partire con chiarezza, per posizionare l’ascolto.
Così “Jump!” di Opera Bianco (Vincenzo Schino e Marta Bichisao) si presenta sulla scena con un piazzato gentile ma fermo, ragionevolmente caldo, spalancato sul palco della sala B del Teatro India, ad aprire la sezione Oscillazioni di Teatri di Vetro, edizione 2021.
I confini di questo palco/mondo sono puramente strutturali, retropalco e platea, in scena c’è tutto ciò che esiste. I performer non usciranno ed entreranno da un qualche “altrove”: esisteranno finché saranno in scena, quando non vi si troveranno, perché non necessari agli equilibri scenici o concettuali del discorso, semplicemente non saranno. Sette piccole figure di rettangoli luminosi sagomati, che a guardarle dall’alto ricordano una ruota sdentata di mulino ad acqua, o comunque uno scheletro suscettibile di rotazione, sono accese fin dal principio in mezzo a questo piazzato.
Entra in scena un corpo, il primo dei quattro che vedremo, quello di Samuel Nicola Fuscà. Buttato in mezzo, travagliato (scimmia o già uomo?), è travolto da un turbine, un piccolo ma irresistibile ciclone personale, un disordine da cui non può far altro che lasciarsi avvitare, roteando, cadendo, rialzandosi, tornando ad afflosciarsi. E questo è un prologo.
L’inizio vero è proprio è l’ingresso degli altri tre performer, due dei quali hanno il cranio rasato e le orecchie tinte stigma del clown bianco. Tutti indossano pantaloni scuri e sopra bianco (diverse le fogge, camicie o canottiere, identico il colore, uno ha anche la giacca) e scarpe normali di cuoio nero che scalpicciano sul legno del palco – un paio è più lungo del necessario, con una punta a una spanna appena dal ridicolo.
Il gesto comico, anche nella sua accezione slapstick (la memoria di Buster Keaton partecipa con i due coreografi-registi alla scrittura della partitura), è repertorio gestuale comune a tutte e quattro le figure in scena. Eppure fin da subito è lampante un naturale disporsi dei quattro in due piccoli sottoinsiemi, simili alla tradizionale divisione del teatro comico in due coppie, l’eletta e la plebea, spesso impegnate nella conquista di un doppio amore dai connotati complementari ma inconciliabili. Quella giovane, il già citato Fuscà con Luca Piomponi, ha caratteri più nobili e sfumati, più lievi; quella matura (C.L. Grugher, Simone Scibilia), è più propensa alla gag comica, spinta fino alla citazione letterale, paradigmatica della torta in faccia.
Le due coppie non sono restie alla comunicazione, anzi i loro componenti si cercano quasi subito lanciandosi flebili fischi: “C’è nessuno?” sembra chiedano; poi portano avanti uno stesso tema gestuale, sfalsato, a canone, e si incontrano come quattro orologi zoppicanti che per caso puntino uguale; ora occupano la spazio in maniera complementare, ciascuno portando avanti una sua frase, una sua grammatica; ora raccolgono lo spazio-mondo in un moto gravitazionale tutto interno al loro quartetto, portandolo in giro per l’ampio palco, ruotando, avvolgendosi e svolgendosi l’uno sull’altro come un meccanismo meraviglioso.
Ma il disporsi e lo sciogliersi delle due coppie entra in collisione con almeno altri due parametri. Il primo è spaziale: come si diceva, il palco di “Jump!” è quasi sempre un mondo non differenziato, senza confini interni; eppure fin da subito viene tracciato, con del nastro-carta, circa a metà del suo spazio, un rettangolo più piccolo. È un luogo teoricamente, sentimentalmente deputato (un inner place), un luogo nel luogo adatto a scene specifiche (come l’immancabile incontro di pugilato, sulla scorta di Keaton ma anche di Chaplin)?
Forse è segno politico: è un luogo privilegiato per statuto sociale, si direbbe, o psicologico, in cui però la vita del più ampio e selvaggio mondo-palco, impossibile da irreggimentare, non capita che saltuariamente, forse persino casualmente. Chi volesse leggere il reale non potrebbe ridursi a esso, insomma, se non a costo di una traviante semplificazione. Eppure, ciò nonostante, esso esiste, pur senza una luce specifica, pur senza una destinazione drammaturgica apicale (vi si svolge, è vero, il sotto-finale, con quella luce a piombo caldissima rovesciata sulla coppia anziana chiusa in un abbraccio al rallentatore, tolte le camicie, pelle contro pelle: ma quel luogo sarà piuttosto da leggere come centro dei due palchi, che come interno del ring).
L’altro parametro che confligge e insieme informa la vita delle due coppie è quello del gesto e dell’azione nel contemporaneo ruolo di strumenti di analisi e oggetto della stessa, letti in quei livelli che, a circa un terzo del lavoro, Edward Lorence Nelson ricorda con una citazione dall’Amleto, Atto V, scena I: “An act hath three branches: it/is, to act, to do, to perform“.
Si tratta di tre verbi solitamente tradotti con “agire, fare, eseguire”, ma il cui senso conviene piuttosto aprire che chiudere, convertendo in libertà quel rischio di infedeltà congenito in ogni traduzione, come ci suggerisce lo stesso principe danese nella lettura di Chiara Guidi: “Le parole ci chiedono di essere trovate balbettando, anche quelle che non vengono dette e alle quali esse rimandano”.
Così l’agire, il fare, l’eseguire si trovano a declinarsi nella doppia coppia comica di cui sopra, e a sfogliarsi nell’ulteriore piano del mondo e del “luogo deputato” (il rettangolo al centro) a essere mostrati e a mostrare l’essere in quei mondi. Questa molteplicità di livelli in cui leggere l’intervento del corpo si esprime dunque con l’abbraccio intimo dei torsi nudi, con lo schiaffo e il calcio e la testata, con il morso e il calcio in culo, con la risata che si converte in pianto, con la lotta burlesca del pugilato comico, con la torta in faccia; ma anche con l’accorrere in aiuto ripetuto e vicendevole verso uno che cada, la mano pronta a proteggergli la nuca dal duro del pavimento, gesto inscritto nel patrimonio genetico dei genitori di ogni tempo e luogo. E si prende e si porta in giro, si dichiara, questo essere nel mondo, si cita, anche, nella corsa e nel gioco della cavallina, nella conta infantile (“dieci pasta e ceci” cantilenano i quattro) che fa guizzare sulla superficie di un palco fino ad allora nudo di parole l’unione del ritmo del passo con quello del parlato, l’evocazione della parola e la sua immediata reificazione in gesto rozzamente mimato, sbozzato (un cucchiaio pesca nel vuoto di una scodella sospesa in aria e porta alla bocca una minestra immaginaria).
Insomma in “Jump!” vi è un ordinato catalogo delle interazioni tra i corpi – diversi per età per condizione fisica, sociale… – e tra i corpi e il mondo: un catalogo mai sentimentale, non privo di una sua leggerezza tradotta in chiarezza di trasmissione, di una fiducia nel lettore dal sapore illuminista ed enciclopedistico, e perciò sano, ambizioso, luminoso, alieno da qualsiasi innamoramento decadente.
Una strana malinconia, tuttavia, aleggia. Che sia la disillusione a qualsiasi presa di fronte al vano mulinare delle azioni umane, sopra una terra insensibile e gelida, capace solo di smorzare sordamente il ticchettio delle suole; o che sia l’assenza di tragedia nelle cose, che rende le cose per l’appunto disperatamente tragiche, questo è difficile a dirsi.
JUMP!
Concept, coreografia e regia: Marta Bichisao e Vincenzo Schino
Performer: Samuel Nicola Fuscà, C.L. Grugher, Luca Piomponi, Simone Scibilia
Suono: Dario Salvagnini
Produzione: PinDoc / OPERA BIANCO
Coproduzione: Fondazione Royaumont (Parigi) “Progetto promosso dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale – Direzione Generale per la Promozione del Sistema Paese, in collaborazione con la Direzione Generale Spettacolo del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, nell’ambito del progetto “Vivere all’italiana sul palcoscenico”
durata: 55′
applausi del pubblico: 2′
Visto a Roma, Teatro India, il 13 dicembre 2021