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XV Opera Prima. Il Lemming nelle mille anime di Rovigo

Marigia Marripinto alla testa di Nilken Line (photo: Loris Slaviero)|Il progetto Bo.Ro.Fra. (photo: Loris Slaviero)

Marigia Marripinto alla testa di Nilken Line (photo: Loris Slaviero)|Il progetto Bo.Ro.Fra. (photo: Loris Slaviero)

La XV edizione di Opera Prima è l’occasione per cogliere, attraverso le arti sceniche, le varie anime di Rovigo, nel cuore della pianura padana che guarda l’Adriatico.
Il quartier generale della quattro giorni (12-15 settembre) organizzata dal Teatro del Lemming sono le Due Torri al centro della città lambita da Adige e Po, il cui delta dista una quarantina di chilometri.

Nell’assolato pomeriggio di sabato 14 settembre, è festa nel cortile tra la Torre Donà e la Torre Mozza. Tra le rovine del perimetro murario del XII secolo, a protezione di un castello ormai scomparso, è Marigia Maggipinto a coinvolgere i cittadini rodigini in “Nilken Line”, sequenza di movimenti promossa in tutto il mondo dalla Fondazione Pina Bausch a dieci anni dalla morte della fondatrice del Tanztheater. Pochi gesti schietti, lineari, ripetuti, per creare una coreografia di gruppo aperta a tutti, gratuita come vari altri eventi del festival. Maggipinto, allieva dal 1989 al 1999 di Pina Bausch, accompagnata da Antonello del Sordo alla tromba e da Federico Pierantoni al trombone, guida una parata scanzonata sulle note di “West End Blues”.
Il serpentone umano attraversa corso del Popolo e raggiunge piazza Vittorio Emanuele II, rasenta luoghi che custodiscono memorie patrie come l’annessione della città al Regno d’Italia (10 luglio 1866) o il monumento a Giacomo Matteotti, figlio di questa terra, vittima eccellente del fascismo della prima ora.

Il senso della comunità è dato soprattutto dall’attivazione della memoria. Ecco, alla Gran Guardia, l’installazione “Soggetti comuni” a opera di MOMEC_Memoria in movimento, ideazione dell’ex attore del Lemming Mario Previato con l’aiuto di Fiorella Tommasini, Angela Tosatto, Antonio Bertagnon, Silvia Cova, Nadia Poletti e Giuseppe Ferrara.
“Soggetti comuni” è uno scambio. È il dono di oggetti personali che destano il tempo del ricordo prima ancora del tempo della memoria. Perché l’etimologia della parola “ricordo” ha a che fare con il cuore, mentre “memoria” appartiene all’ambito della mente. Con il sottofondo delle musiche di Massimo Munaro (direttore artistico del festival) e di Paolo Brusò, con i video di Manuel Perini e Salvatore Restivo, assistiamo al restyling di oggetti personali non superflui, che aprono squarci, emozioni vivide, attraversamenti di occhi lucidi. Due donne si scambiano pezzi di passato: «Questo innaffiatoio è uno degli ultimi oggetti che mia madre ha tenuto in mano prima di morire; innaffiava una pianta bellissima; lo dono a te, perché possa fiorire ciò che ti è più caro». «Questo è un mio maglione, sono una persona freddolosa. È opera di mia madre. È rosso, il mio colore preferito. Lo indossavo il giorno del mio primo innamoramento. Quell’amore è finito da tempo, ma ricordo ancora i turbamenti di quel giorno. Lo do a te, perché possa custodire le tue emozioni».

Oggetti legati a ricordi personali intimi, mentre lo scorso anno riguardavano i luoghi di Rovigo e una dimensione pubblica. “Soggetti comuni” è un’altra tappa alla ricerca delle radici di una città che conserva le ferite dell’alluvione del 1951, e fu come riesumare le bordate della guerra appena conclusa. Le valanghe d’acqua, la pianura uno stagno di fango, un lago tetro di settanta chilometri di diametro. La tragedia del bestiame, l’alba di un mattatoio. I terreni invasi, i pioppi falciati. Le case spazzate. Un centinaio di morti, migliaia di sfollati. Le caserme trasformate in ospedali. Dopo la guerra degli uomini, la guerra della natura.

A Rovigo il Teatro del Lemming nasce nel 1987 per opera di Massimo Munaro, poeta e compositore, e di Martino Ferrari. I lemming, piccoli roditori delle tundre nordamericane e nordeuropee soggetti a ciclici boom demografici, sono soliti lasciare le montagne (dove vivono di preferenza) per cercare nuove sistemazioni. Quando un gruppo incontra un corso d’acqua, nella ressa alcuni animali finiscono per caderci, e poiché i lemming sono cattivi nuotatori, molti affogano e vengono poi ritrovati morti sulla riva. Ma quelli che sopravvivono fondano colonie in luoghi insoliti, inaspettati.
Questo è il senso del nome della compagnia: il sacrificio degli adulti per assicurare l’eredità ai nascituri, perché possano sopravvivere sulla scogliera. Il Teatro del Lemming è l’istinto di sopravivenza alle avversità, che siano la distruzione della natura o la mancanza di risorse economiche.

Questa è ora Rovigo, la città di 50 mila abitanti e di una ventina di edifici sacri, la terra dei campanili e dei rintocchi continui di campane, tra il ghetto e il cimitero ebraico. In giro si vedono tante bici quante auto, e la domenica all’ora di pranzo si sente della buona musica nelle strade larghe, e dalle finestre si avverte l’odore del bollito e del ragù. La sera la gente si ritrova in massa a chiacchierare ai tavolini dei caffè e dei bistrot all’aperto.

Il progetto Bo.Ro.Fra. (photo: Loris Slaviero)

Poi c’è l’altra Rovigo, quella degli immigrati e delle loro anime molteplici, che domenica scorsa, prima del tramonto, ha colorato piazza Vittorio Emanuele II.
La piazza è filigrana della storia cittadina: con la statua al re e la Loggia dei Nodari (sede del Municipio), con la colonna sormontata dal Leone di San Marco, con Palazzo Roverella (sede della Pinacoteca) e il palazzo del Corpo di Guardia austriaco. Qui c’è una lapide dedicata a Dante, e la sera il palazzo comunale si colora di luci verdi, bianche e rosse.
Il progetto Bo.Ro.Fra dà forma all’anima nascosta della città, con una performance estrosa di percussioni e danze africane che coinvolge ospiti, operatori e cittadini raccolti attorno alla cooperativa sociale Porto Alegre. A guidarli l’artista guineano Alseny Bangoura, che dà ritmo a una città meno compassata di una volta, forse capace di rompere gli argini. Stavolta non con l’acqua che distrugge, ma con la forza del munus, il dono che crea la comunità.
È il segno dell’accoglienza. È il valore del Lemming, che postula la ricerca teatrale come autenticità, comunione attore-spettatore, molteplicità dei punti di vista.

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