Un’impronta civile ha segnato l’ultimo weekend del Festival Opera Prima edizione 2021. La kermesse rodigina si è chiusa con la consapevolezza che l’arte non debba rinunciare a incidere sulla realtà. Gli artisti non possono delegare il loro progetto di emancipazione. Lo slancio visionario dell’arte non è velleitario quando cala l’utopia dentro un processo politico che supera l’ideologia e va incontro alle persone: provando a dare un nome ai loro sogni; intercettando il loro capitale di sentimenti e bisogni.
Va in questa direzione il catalano Roger Bernat della compagnia FFF (The Friendly Face of Fascism) con “Numax-Fagor-Plus”.
Disposti in una sorta di circle-time, gli spettatori si autocoinvolgono in una sorta di duplice assemblea. Interpretano i dialoghi reali di lavoratori di due fabbriche spagnole di elettrodomestici: la Numax di Barcellona, chiusa nel 1979 dopo un breve periodo di autogestione, e la Fagor, azienda basca leader del settore alberghiero. In un gioco di specchi, i lavoratori della Fagor ricostruiscono le battaglie dei colleghi della Numax.
Guidati da Laura Valli, unica attrice professionista, gli spettatori diventano attori interagendo nella veste dei lavoratori, decidendo liberamente di leggere e interpretare i sottotitoli che scorrono su due schermi piazzati davanti a loro. I dialoghi sono inframmezzati da registrazioni video.
Gli spettatori-attori rimbalzano tra le due vicende, facendo proprio il vissuto dei lavoratori che interpretano, scorgendo la filigrana che distingue gli interessi del capitalismo da quelli della classe proletaria. Ci immedesimiamo nel servilismo, nell’ignoranza e nella prepotenza, consapevoli del ruolo e dei diritti dei lavoratori. Discerniamo il coraggio di esporsi e la paura di compromettersi. Qualcuno di noi rimane in silenzio e ascolta senza interagire, esattamente come avviene in qualunque assemblea reale.
Le visuali s’intersecano. I piani narrativi si moltiplicano. Con ancora addosso i rigurgiti del franchismo, con una poetica impegnata che ricorda i film di Ken Loach, Roger Bernat ci aiuta a misurare la distanza tra due epoche irriducibili. Assistiamo al «funerale della coscienza di classe» (Maria Dolores Pesce) nell’atto in cui ci rassegniamo all’inazione attuale e alla perdita di prospettive delle generazioni future. Non resta che il buio, e la danza macabra dei fantasmi che stiamo diventando, mentre intoniamo goffamente canti di battaglia ormai anacronistici.
Nella breve performance “Don’t, kiss”, Fabio Liberti esplora con Jernej Bizjak, la forza poietica del bacio che crea connessioni. Qualche fischio maldestro e qualche gridolino omofobo da parte di un manipolo di attempati spettatori per caso, perfino la richiesta d’intervento da parte dei vigili urbani, vorrebbero bloccare questa performance pudica, negando il presupposto che la relazione è un assoluto senza schemi né identità di genere.
Di fatto “Dont, kiss”, che pure lambisce il tema dell’omosessualità, è un lavoro controcorrente solo perché invita al nesso dei respiri in un’epoca snaturata da distanziamento e mascherine. Qui il bacio è campo gravitazionale, potere salvifico, scintilla creativa. È kamasutra spirituale acceso dalla musica. Asseconda impulsi ancestrali come nel “Bacio” dello scultore protocubista Constantin Brâncuși, capace di animare un blocco di pietra attraverso la magia di due sguardi che s’incrociano e fondono. Oppure riecheggia “Gli amanti” di Magritte, avvicinati e allontanati da un velo che rende ciechi, ma libera l’immaginazione.
“Don’t, kiss” è apnea e prova di resistenza. Il bacio è perno fragile che avvia una serie di volute armoniche e bizzarre. Snodati, avvinghiati, sollevati mentre i loro otto arti si agitano come le zampe di un insetto ferito, i due performer cristallizzano il dinamismo di una qualunque relazione pervasiva, provvisoria, permanente. Con la fatica di staccarsi. Con la volontà di mettersi a nudo. Con la tentazione di andarsene, forse per provare l’ebbrezza del ritorno.
Una spiritualità pervasiva invade anche “Onirica”, installazione caleidoscopica, performance surrealista di Giulia Odetto che esplora il sonno e il sogno. Come nella nouvelle vague francese, l’inconscio vibra di ricordi frammentati e confusi, cui provano a dare consistenza la voce di Beatrice Vecchione e le acrobazie della circense Camille Guichard, alter ego che traduce la parola in gesto e immagine con Daniele Giacometti e Andrea Triaca. Qui però colpisce soprattutto l’uso artistico del video con i suoi sfumati, con il potere evocativo della telecamera in presa diretta, accompagnata da suoni stordenti.
Siamo faccia a faccia con i nostri fantasmi e proiezioni. Danze addominali, luci come ecografie, bagliori lunari, chiaroscuri, musiche che spaziano dal synth pop al prog, voci fuori campo, avviano una sorta di training autogeno collettivo. Il potenziale di questo lavoro è enorme. Andrà dosato, armonizzato e consolidato nell’esito finale della performance, presentata al momento in forma di studio.
Il festival diretto da Massimo Munaro si chiude nel segno della danza. “Esercizi di Fantastica” di Sosta Palmizi è un gioco tra performance e circo, con al centro tre personaggi (Elisa Canessa, Federico Dimitri, Francesco Manenti) bellamente inebetiti dietro a giganteschi device. Il loro buffo abbigliamento grigio culmina in giganteschi cappelli un po’ colbacchi russi, un po’ berrettoni da guardia reale inglese, un po’ acconciature di Marge Simpson.
Insieme ai costumi di Beatrice Giannini e Francesca Lombardi, è la scenografia della stessa Lombardi con Manenti e Francesco Givone a far nascere lo spettacolo. E’ una sorta di gigantesco foglio di quaderno piegato in due, che variamente ribaltato diventa ora interno domestico, ora perimetro esterno, ora tenda, ora tetto spiovente. I personaggi vi entrano e ne escono continuamente inseguendo una farfalla, simbolo di bellezza e della capacità di cambiare, preludio a una felicità sempre inconsistente. La meraviglia della metamorfosi s’insinua lentamente nei protagonisti cambiando il loro modo di vedere le cose.
La farfalla è magia, ipnosi, arcobaleno. Tra piroette e simmetrie sghembe, con la partecipazione alla regia dell’ideatore Giorgio Rossi, lo spettacolo sublima verso una danza patafisica e visionaria, con una grammatica della fantasia che unisce in un sodalizio surreale Rodari e Jarry. E dal triste grigio iniziale si sprigiona un gioioso tripudio di colori vivaci e balli tarantolati.
“Soggetto senza Titolo” di Olimpia Fortuni, con il paesaggio sonoro di Pieradolfo Ciulli e Danilo Valsecchi e il disegno luci di Andrea Rossi, è un viaggio alla ricerca dell’uomo attraverso la danza. Prefigura la felicità fuori dal capitalismo che crea la civiltà dei consumi e minaccia la salute del pianeta.
Ad avviare la performance, il discorso pronunciato nel 2012 alla Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile da Pepe Mujica, all’epoca presidente dell’Uruguay. Quel discorso sulla felicità stigmatizzava le contraddizioni dell’economia di mercato, che a parole predica uno sviluppo calibrato, nei fatti promuove il modello di sprechi delle società ricche. E intanto ogni giorno 37mila persone muoiono di fame.
“Soggetto senza Titolo” è uno spettacolo tragicomico. Il buio della scena genera una figura bituminosa senza volto, emblema di un’umanità al gancio. La performer è un fantoccio senza nerbo che annaspa negli abissi. È un geco ferito incollato alla parete, che si agita verso l’ultimo respiro. La morte avvia la metamorfosi. Il corpo evapora. La coscienza rinasce. I movimenti farraginosi e anchilosati abbozzano una nuova umanità, che da un albore scarmigliato e quadrumane decolla verso orizzonti più raffinati.
Fare tabula rasa della civiltà. Ripartire da zero. L’emancipazione è fatica. La felicità è regresso all’infanzia, ritorno allo stato di natura, rielaborazione del mito del buon selvaggio caro a Rousseau.
La bellezza di una natura incontaminata pervade l’epilogo di questo lavoro. La performer è ormai nuda. Il suo corpo è nascosto in un angolo dalla generosità di una natura rigeneratrice, le cui immagini video campeggiano sullo sfondo. Sono paesaggi mozzafiato, da cui scompaiono gradualmente i vestigi delle civiltà. Crepuscoli, silenzi e luce naturale esprimono il bisogno di libertà, l’urgenza di riconnettersi con la terra.
Le stelle del video si confondono con quelle del cielo sopra il chiostro degli Olivetani a Rovigo. E ci pare il modo più onirico e poetico di chiudere questa riuscitissima edizione del festival. Prima delle note universali del pianista siriano Aeham Ahmad.