Helga Davis. Uno strumento musicale per l’Operetta in nero di Andrea Liberovici

Helga Davis (photo: M.Norberth)
Helga Davis (photo: M.Norberth)
Helga Davis (photo: M.Norberth)

“L’importante è parlare, non partecipare, ché partecipare implica contaminarsi con quello che realmente succede” scriveva Aldo Nove nella prefazione a “Officina Liberovici”, individuando uno dei temi da sempre più cari ad Andrea Liberovici: la conoscenza.

Lo sguardo del regista-compositore, che ha dato vita al Teatro del suono, cerca intorno a sé, tra gli uomini che vivono il suo e il nostro tempo, l’antico valore della partecipazione, la contaminazione fisica tra le persone che conoscendosi, toccandosi, realmente riecono a comunicare. Ed è così che a Liberovici non resta purtroppo che rilevare il desolante panorama di tante solitudini per nulla comunicanti, paradossalmente o grottescamente ‘connesse’ – da una rete internet, uno schermo, un odierno filtro virtuale qualsiasi – ma mai fisicamente in rapporto reale l’una con l’altra.

Ecco l’urgenza di questa “Operetta in nero”, nuova produzione del Teatro Stabile di Genova che ha debuttato in prima nazionale lo scorso 15 marzo per restare in scena al Teatro Duse fino al prossimo 3 aprile. Liberovici ne firma musiche, regia e testo – quest’ultimo in collaborazione con Luca Ragagnin.

Il lavoro consiste in una composizione di 90 minuti difficile da collocare in uno spazio preciso del teatro musicale, e questo per esplicito volere del suo ideatore, che da sempre gioca e costruisce mondi in cui dialogano corpi ‘sonanti’: “Definire i personaggi non solo attraverso ciò che dicono e fanno, ma anche attraverso la musica che gli si addice. Mi diverte molto mettere in relazione i generi musicali, cioè farli agire proprio come se fossero dei personaggi teatrali, farli scontrare, accoppiarsi, amarsi, dialogare o litigare” dice il regista.

Tra le tante fonti che hanno nutrito la mente creatrice di Liberovici si impongono con maggior forza il Faust di Goethe, il Tamerlano di Marlowe, i saggi di György Lukacs, la grottesca e ‘ipertestuale’ scrittura di Edoardo Sanguineti, amico e compagno di lavoro per quindici anni.
A partire da questi il regista costruisce un’architettura drammaturgica in cui il suono, commentando e scandendo il ritmo e il tempo dell’azione, si unisce alla ‘parola detta’ allo scopo di razionalizzare e fornire di senso logico il racconto, in un dialettico gioco di scambi e rimandi. La maggior produttrice di emozione resta la musica, da quella concreta in cui il compositore ha ricercato e ricerca nelle sue collaborazioni con il GRM di Parigi ad esempio, a quella pop incarnata negli otto songs, canzoni popolari o ballate che corrispondono alle otto scene di cui è composto il lavoro.

Tre strani personaggi: un grosso uomo, dall’aspetto e i modi rudi ma che sa diventare ammaliante e ruffiano quando serve; un generale, in cui Liberovici vede un “dittatore mediatico delle guerre democratiche”; un piccolo ragazzetto ricurvo su se stesso, che il regista ha immaginato come uno di quei giovani contemporanei tutto computer e nuove tecnologie che, faustianamente, perde di vista la vita vera. Una straordinaria fragilità colmata in parte grazie all’incontro con il generale che sembra, pian piano, diventargli più che amico, quasi padre.

Straordinari interpreti Federico Vanni e Vito Saccinto, calati in una realtà abbastanza indefinita, unici superstiti di un mondo probabilmente giunto al termine. Si incontrano tra i resti di un antico teatro, mentre brechtianamente una scritta  campeggia sopra le loro teste: ‘un teatro? meglio un parcheggio’. Il progressivo avvicinarsi dei due e il raggiungimento del contatto comunicativo diventa tristemente possibile solo grazie al ritrovarsi forzato in un luogo comune. A scrutare dall’alto, commentando ironicamente l’aspetto grottesco della realtà contemporanea in cui il generale e Bolla sono immersi, una delle attrici, cantanti e performer più affascinanti e carismatiche di oggi: Helga Davis. Newyorkese, ha lavorato con registi come Peter Greenaway, Saskia Boddeke e Robert Wilson. Qui è impegnata nel ruolo di Shadow, la mefistofelica ombra degli altri due personaggi, incarnazione delle grandi illusioni su cui poggia la modernità malata. A lei sono affidate le canzoni, tra l’altro presentate lo scorso ottobre sotto forma di ‘songs book’ all’Apollo Theatre di New York.

Vi è infine un’ultima presenza, che incarna “la voce stessa del palcoscenico, luogo per eccellenza della comunicazione vera” dice il regista, ed è quella di Robert Wilson. L’intento sarebbe quello di lanciare nello spazio la voce registrata del grande artista texano come dei “residui bellici, delle mine” che deflangrando vanno a comporre di volta in volta le scene.
Il lavoro di Liberovici, che ho potuto osservare da vicino avendo partecipato anche io, seppur in piccola parte, si è evoluto nell’arco di diversi anni assumendo forme variegate e differenti: dall'”Urfaust”, messo in scena sempre per lo Stabile, sono nate le “Postcards from Faust”, un racconto video (in nove scene da un minuto ciascuna) della storia del protagonista di Goethe, quindi un veloce passaggio ‘in the box’ di prima stesura di una drammaturgia diventata inizialmente le 8 canzoni del songs book ed infine questa operetta ‘di fine regime’.

Andrea Liberovici ed Helga Davis si sono concessi generosamente al dialogo con Krapp. Queste conversazioni, di cui vi proponiamo un estratto (e che trasmetteremo integralmente, a partire dai prossimi giorni, nella rotazione della web tv in home page) daranno modo di  conoscere meglio le intenzioni e le fasi di questa nuova architettura sonora.

Intervista integrale: prima parteseconda parte

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