Nell’ultimo spettacolo dell’Accademia degli Artefatti c’è tutta la poetica del dramma didattico di Brecht. È sorprendente notare, il giorno dopo lo spettacolo, “a freddo”, come la messinscena di Fabrizio Arcuri, regista della compagnia, rispetti maniacalmente sia il testo che il pensiero del grande drammaturgo tedesco.
L’opera è “Orazi e Curiazi”, un dramma minore del 1934, che appartiene al ciclo dei cosiddetti “drammi didattici”, cioè a quei testi che Brecht scrisse nei primissimi anni Trenta, dove si sente fortissima la vocazione sociale stimolata dalla formulazione di una vera e propria dialettica marxista.
Il punto di partenza dello spettacolo è proprio il comunismo: la scena è una sede polverosa del Partito degli anni ’60, coi suoi poster in cirillico e il giradischi che suona l’Internazionale.
Quattro disinfestatori in tuta gialla si aggirano nella sala come fossero uomini in un viaggio nel passato, sopraffatti dalla nostalgia e dalle lacrime per quel sogno che anche Brecht aveva sposato, ma naufragato catastroficamente. L’atmosfera tesa, le luci intermittenti e i suoni elettronici sospendono ogni coordinata temporale. La malinconia per quello che sarebbe potuto essere e non è stato si accorda bene con le povere note di “In a manner of speaking”, della storica band anni ’80 Tuxedomoon.
Poi improvvisamente le luci si accendono. Cambio di scena. Entrano le formazioni degli Orazi e dei Curiazi, schierandosi in fila frontalmente al pubblico divisi a metà da una sgargiante figura femminile in abiti cinesi, che rappresenta il coro, proprio come Brecht aveva indicato nelle note agli attori in calce al testo.
L’interpretazione è grottesca e lo spettacolo tende ad un certo ‘non sense’. Mentre la recitazione si attiene fedelmente al testo, gli attori compiono le azioni più disparate: in scena si squadernano allora fucili e frecce giocattolo, torte alla panna, ventilatori e televisioni quando Orazi e Curiazi si siedono a cena per mangiare finti maialini con la mela in bocca, o si conciano come artisti di strada da quattro soldi, con ridicole cuffie di plastica sulla testa e maschere antigas, piuttosto che quando si fotografano in scena o si riprendono in diretta con una telecamera o, ancora, soffocano un principio di incendio con una grande nuvola di polvere bianca uscita da un estintore.
Insomma, un vero guazzabuglio visivo, anche divertente, ma che a tratti fa soffrire un po’ lo spettatore per certe lungaggini e per qualche passaggio che potrebbe sembrare eccessivamente manieristico. Forse però anche questa era una delle intenzione brechtiane, onorata dal piano registico di Arcuri. I drammi didattici sono in fondo i veicoli della “grande pedagogia”, in grado di trasformare completamente il ruolo della recitazione, tematica molto cara agli Artefatti, e di incrinare il rapporto attore-spettatore.
La folgorante idea di fondo che sostiene tutta la rappresentazione è la lotta per la conquista del potere conteso da tre gemelli di Roma, gli Orazi, e tre gemelli di Albalonga, i Curiazi.
L’unicità e il paradosso di questo evento storico sta nel fatto che non esiste un oggetto del contendere. Nessuna ideologia sostiene le due parti belligeranti, e in ballo c’è solo l’avidità di predominio. Avere il potere per mantenerlo. In questo senso, la lezione che si vuole far emergere dallo spettacolo è elementare ma didattica e tutta volta al contemporaneo.
Didattico: in fondo questo testo era indirizzato ai bambini e pensato per essere da loro rappresentato, come ribadisce il sottotitolo dell’opera “commedia dialettica per fanciulli”. I drammi didattici sono utopie che non abbisognano di spettatori. Sono educativi per gli stessi esecutori nella misura in cui questi mimano un determinato comportamento e mettono in scena la propria comunità coi suoi problemi, per oggettivarli e trovare soluzioni. Se non se ne può proprio fare a meno, sembra suggerire Brecht, la rappresentazione può essere aperta anche ad un pubblico. È in questa spaccatura che si inscrive il lavoro dell’Accademia degli Artefatti, e tutta questa teoria trova coerenza all’interno della messinscena di Arcuri: le indicazioni di regia sono rispettate fino al più piccolo particolare (come per esempio l’utilizzo dei coriandoli soffiati dal ventilatore per simulare la bufera, l’utilizzo della lavagna tipica della scuola per aggiornare il conto delle armi ancor a disposizione, oppure l’uso dei pannelli trasparenti con scritto montagna per simboleggiare alti massicci, o ancora il sole rappresentato con un piccolo faretto issato su una pertica. Tutti suggerimenti brechtiani applicati alla lettera).
Tutto ciò che non è testo è dispositivo e epifenomeno. Diviene chiarissimo quindi il tentativo di interpretazione rigorosa di questo testo impossibile da parte dell’Accademia degli Artefatti. Un tentativo che permette al gruppo di arrivare ad una letteralità vertiginosa. E qui pensiamo ovviamente a certi felici passaggi carichi di grottesco: quando il coro degli Orazi incita i suoi a sfruttare il raccolto dei campi, Gabriele Benedetti e Fabrizio Croci (due Orazi) si spogliano rivelando sotto agli indumenti altri abiti da contadini. Oppure nel prefinale, dove nel testo avviene lo scioglimento e la spiegazione della vittoria tramite il dialogo tra l’ultimo dei fratelli Orazi, e il suo coro è trasformato in una lezione di storia, con i suggerimenti e le palline di carta che volano.
Eppure, come si diceva, tutto ciò appare più chiaro solo il giorno dopo, a qualche ora dallo spettacolo, mentre in sala la performance soffre di una eccessiva lunghezza rispetto al testo, composto da venti pagine appena.
A chiudere quello che, comunque, rimane uno spettacolo formalmente e drammaturgicamente ben costruito, è una bella riflessione sul potere affidata a una voce fuori campo, che ha il compito di chiosare una vera e propria morale, sempre rispettando la vocazione didattica di partenza: nell’era del controllo assoluto, dove è ormai impossibile vincere anche facendo massa, non converrà forse portare avanti ognuno la propria battaglia singolarmente?
Il terrore è così diffuso che forse non ci accorgeremmo neanche di aver vinto…
ORAZI E CURIAZI
di Bertolt Brecht
traduzione: Emilio Castellani
dramaturg: Magdalena Barile
regia: Fabrizio Arcuri
con: Miriam Abutori, Michele Andrei, Matteo Angius, Emiliano Duncan Barbieri, Gabriele Benedetti, Fabrizio Croci, Pieraldo Girotto, Francesca Mazza, Sandra Soncini
assistente alla regia e costumi: Marta Montevecchi
video: Lorenzo Letizia
plastico/installazione scenica: Portage (Enrico Gaido, Alessandra Lappano)
cura degli ambienti: Diego Labonia
scene: Claudio Petrucci, Andrea Simonetti
organizzazione e promozione: Simone Pacini
produzione: accademia degli artefatti 2011
in collaborazione con: Teatro di Roma, PIM OFF – Milano, AREA06 – Roma, Drodesera Centrale Fies – Dro (TN), teatroinscatola – Roma
durata: 2h
applausi del pubblico: 2′ 30”
Visto a Roma, Teatro India, il 1° luglio 2011