Orestea. Al cospetto del silenzio tragico di Castellucci

Photo: Guido Mencari|L'Orestea di Castellucci (photo: Guido Mencari)|La Clitemnestra di Castellucci
Photo: Guido Mencari|L'Orestea di Castellucci (photo: Guido Mencari)|La Clitemnestra di Castellucci

“La pelle, la superficie, è già l’abisso”. Con queste parole Romeo Castellucci esprimeva, nel corso di un colloquio di tre giorni tenuto a Liegi nel settembre 2012, il suo punto di vista sul ruolo dello spettatore davanti e prima dello spettacolo. Uno scrutatore dell’abisso che, come vuole Nietzsche, è a sua volta guardato, scrutato e pervaso da questo stesso abisso; creatore adulto libero e solitario del senso perennemente frustrato, frammentato e ‘bruciato’ del testo spettacolare.

La sua opera è priva di qualunque significato pre-ordinato o precedente la lettura dello spettatore: la lettura dello spettatore è speculare e inversa al lavoro dell’artista, il quale traccia i nodi della rappresentazione sulla carta, per poi gettarli e comporli sul palco in geroglifici sonori e visivi.

Per questo Castellucci afferma che l’atto creativo del suo teatro esiste non nelle prove ma prima di esse, al momento di concepire lo spettacolo e dopo, nel momento in cui lo spettatore (“mammifero che respira l’aria di altri sconosciuti nella stessa stanza”), leggendo o ascoltando questi geroglifici durante lo spettacolo, conferisce loro un senso personale e mai condivisibile.

Assistere ad uno spettacolo di Castellucci è una caduta nell’abisso. Sempre. È leggere la superficie delle cose col corpo prima che con la mente: è cadere prostrati sotto una cascata di segni senza referente. E con questa riedizione dell’“Orestea”, in particolare, presentata a Parigi nell’ambito del Festival d’Automne (in scena fino al 20 dicembre), si tratta di una caduta nell’universo pre-tragico di violenza e sangue che fonda la civiltà occidentale della rappresentazione.

Due parti, la prima composta di un atto, la seconda da due, fanno la struttura di questa trasposizione irrazionale e lucidissima dell’opera di Eschilo. La prima corrisponde all’“Agamennone”. La seconda alle “Coefore” e alle “Eumenidi”.

Per Castellucci il teatro tragico greco è invalicabile (indépassable): secondo lui l’animale-uomo moderno non si è allontanato di un passo dall’animale-uomo tragico.
I personaggi della fabula, Oreste, Elettra, Egisto, Cassandra, Clitemnestra o Agamennone, soffrono lo stesso dolore di Castellucci. Per mettere in risalto quest’affinità di dubbi, errori e dolori è necessario spogliare l’ordito poetico per lasciare scoperto il nerbo portante di quest’opera: il sangue. Senza l’autoritas significante della parola poetica ciò che resta al mito sono la caccia, la guerra e l’omicidio. Ogni elemento ragionevole, ogni giustificazione, ogni significato è violentato e deriso dallo sviluppo dell’ordito scenico di Castellucci.

La figura del coniglio-corifeo è emblematica: incatenato – fisicamente, è chiaro – al suo ruolo di portavoce della comunità e di educatore di essa, la sua fine non può che essere nel sangue e nel delirio. Egisto lo massacra come ha massacrato Agamennone: la sua colpa sembra essere quella di aver pianto il vecchio re. Forse, però, la sua vera colpa è un’altra: quella di essere stato fino a quel momento il portatore di un ‘logos’ razionale.
Scarnificandolo, rendendolo oggetto di una violenza inutile e purificatrice, Egisto ne scopre l’anima più profonda e animale: ecco che allora questo coniglio diventa il narratore di Alice nel paese delle meraviglie. Crolla nell’antro del bianconiglio come Ifigenia ascende al cielo. Indizio, sembra, di un possibile significato. Ma è un’illusione: una voce fuori scena lo chiama: “Signor Toni, signor Toni, sta sbagliando tutto”. Poi, il coniglio corifeo è chiamato Artaud. Il maestro è rivelato, senza che questo giustifichi un significato non ambiguo o peggio unilaterale. Alcuna chiave di lettura collettiva è concessa.

Come priva di ogni rapporto logico è la vendetta di Clitemnestra. In effetti, non più di vendetta si tratta ma di orgia di sangue. Le urla di Cassandra, imprigionata in una gabbia di vetro poiché condannata alla tragedia del sapere, ne è la prova. Il suo sangue e le sue urla sgorgano dal suo corpo osceno in mezzo a corpi altrettanto osceni. Non c’è pietà verso questo animale-uomo che non sia costantemente messa in ridicolo da Castellucci.

La Clitemnestra di Castellucci (photo: Guido Mencari)
La Clitemnestra di Castellucci (photo: Guido Mencari)

Sorte affine spetta a Oreste. Costui, inoltre, porta su di sé il marchio della ‘hybris’: si è creduto legittimato al delitto davanti al cadavere – capro-espiatorio anche qui letterale – del padre. Respira dal cuore del padre l’odio verso la madre, durante un rito sanguinario che lo porta a scrutare nella tomba del padre in cerca della legittimazione all’omicidio.
Aiutato da Pilade e da Elettra, Oreste si inganna e si autoimpone il fardello dell’omicidio, rappresentato da un supporto artificiale applicato al braccio che obbliga chi lo indossa a compiere un movimento solo. Compie dunque il suo destino: uccide, coperto da un velo che, secondo i dettami aristotelici, nega allo spettatore la vista dell’omicidio. Mostra alla fine l’arma del delitto, issandola al centro della scena al posto del cadavere macellato del padre.
Peccato che la ieraticità pallida del rito, con cui inizia il quadro, interrompa l’azione, obbligando lo spettatore alla vista ripetuta e fastidiosa del corpo-animale sventrato di Agamennone, finendo per annoiare: traducendo la ‘sympatheia’ in pietà degradata e il terrore in orrore, e facendo purtroppo perdere forza a questo quadro secondo.

Se è vero, come Castellucci stesso afferma, che la tragedia classica è inevitabile, non monumento funerario bensì stella polare del teatro occidentale, essa non è immune dall’ironia divoratrice dello stile proprio di Castellucci. Per questo, forse, del tribunale dell’aeropago istituito da Atena per liberare Oreste dalle Erinni resta solo una gabbia di scimmie. Gli animali, spaventati dall’entrata di Oreste, dovrebbero essere i fantasmi del passato che lo tormentano. Questo cerchio di luce amniotica è la mente di Oreste ed il suo aeropago. Lì incontra la madre che lo perdona e lo libera.

Photo: Guido Mencari
Photo: Guido Mencari

Oscillando con il suo cappello cilindrico e le sue orecchie da asino, Pilade guarda la scena. E noi guardiamo Pilade che guarda Oreste che guarda la madre, la quale a sua volta è rivolta verso di noi. La voce di lei è una melopea, distorta e dissonante come tutte le voci di tutti gli attori di questo spettacolo. Non sembra provenire da alcun oltretomba. Forse perché l’oltretomba è lì davanti a noi. Ci scruta in questo gioco di sguardi che la prossemica imposta a Pilade ci ricorda. Ma questa affermazione ci conduce verso un senso che è nelle regole del gioco scenico di Castellucci rifiutare in partenza.

L’abisso, alla fine, si copre di nero. Il nostro diritto voyeuristico è esaurito.
Cosa ci resta, dunque, di questa esperienza di solitudine e dolore condivisi? Il silenzio, sicuramente: un’afasia.

Questo testo-spettacolo è un evento che per statuto non può essere condiviso tra la platea ma solo accettato dallo spettatore singolo: è un’opera tragicamente, violentemente aperta. Se la accettiamo dobbiamo accettarne il silenzio che ci inietta nel cuore.
Se la rifiutiamo, se ridiamo della mancanza di qualunque forma di ironia rigeneratrice, se non ne accettiamo il nichilismo antropologico siamo comunque nel giusto, per Castellucci, e partecipanti al rito poiché abbiamo guardato.
In entrambi i casi è il silenzio che vince. Così, anche Castellucci vince: allestisce un’affascinante scrittura scenica fatta di immagini e suoni tanto ripugnanti quanto sacri, tanto scandalosi quanto alla fine innocui nella loro freddezza. Per approdare infine al silenzio.
In questo percorso, tuttavia, sono i nostri corpi ad essere agiti da immagini la cui ambiguità è puro significante, pura struttura, ossa senza scheletro. Noi le subiamo una dopo l’altra, le riordiniamo, cerchiamo di dar loro un senso, troviamo una via per un significato, ci illudiamo; ma in fondo tutto questo poco importa: sarà il silenzio ad avere l’ultima parola.
Per vederlo a Roma occorrerà attendere, dal 5 al 9 ottobre 2016, il Romaeuropa Festival.

Orestie (une comédie organique?)
Direction, stage, lighting and costume design: Romeo Castellucci
Music: Scott Gibbons
Assistant lighting design: Marco Giusti
Automation: Giovanna Amoroso, Istvan Zimmermann
Director stage set construction: Massimiliano Scuto, Massimiliano Peyrone
Associate production: Socìetas Raffaelo Sanzio
In coproduction with: Odéon-Théâtre de l’Europe; Festival d’Automne à Paris; MC2 Grenoble; Célestins – Théâtre de Lyon; Théâtre Nouvelle Génération – Centre dramatique national de Lyon; La rose des vents – Scène nationale Lille Métropole à Villeneuve d’Ascq; Maillon Théâtre de Strasbourg – Scène européenne; Romaeuropa Festival; Théâtre National de Toulouse Midi-Pyrénées, With théâtre Garonne – Scène européenne (Toulouse)
In partnership with Odéon-Théâtre de l’Europe; Festival d’Automne à Paris (for performances from 2 to 20 December)
First performed on 6 April 1995 at Teatro Fabbricone, Prato
En association with France Culture

Visto a Parigi, Odéon-Théâtre de l’Europe 6°, il 5 dicembre 2015

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