“Orphée et Euridice” di Christoph Willibald Gluck, a cui abbiamo assistito al Teatro alla Scala, oltre ad avere un’importanza storica indiscussa è uno dei capolavori senza tempo che, dopo averlo ascoltato, entra direttamente nel cuore di chi ama la musica. Eppure raramente lo vediamo proposto nei cartelloni dei teatri lirici.
Abbiamo detto opera di importanza storica perché, nata su libretto di Ranieri de’ Calzabigi, aprì a fine ‘700 la strada alla cosiddetta riforma gluckiana, che si proponeva di semplificare al massimo l’azione drammatica, contro le astruse e complicatissime trame dell’opera seria italiana, proponendo un rapporto più equilibrato tra parola e musica, e frenando al contempo gli eccessi vocali degli interpreti canori.
Nella riforma ebbe parte importante, ed è giusto ricordarlo, anche il direttore generale degli spettacoli teatrali (Generalspektakeldirektor), il conte Giacomo Durazzo.
“Orfeo e Euridice” fu rappresentata per la prima volta in italiano a Vienna il 5 ottobre 1762, con protagonista il famoso contralto castrato Gaetano Guadagni; mentre dodici anni dopo, il 2 agosto 1774, nella prima sala del Palais-Royal, il compositore ne propose una versione in francese, con libretto ampliato da Pierre Louis Moline e con diversa orchestrazione, idonea ai più ampi organici dell’Opéra, con musica nuova e un più corposo spazio per le danze. Qui Orfeo non era più un contralto castrato ma un haute-contre, Joseph Legros.
Arriva dal Covent Garden di Londra, in prima rappresentazione assoluta al teatro milanese, la versione francese del capolavoro di Gluck.
La vicenda messa in scena è quella celebre del cantore Orfeo che scende gli Inferi per cercare di riportare in vita, con l’aiuto di Amore, attraverso la sua musica incantevole e incantata, l’amata Euridice, uccisa dal morso di un serpente.
Siamo davanti ad un ‘opera nuova rispetto alle precedenti, composta in stretto rapporto tra musicista e librettista: non vi sono più grandi arie virtuosistiche ma composizioni canore più brevi, collegate tra loro e con i recitativi, accompagnati da danze e cori. Un’opera dunque totale, in cui tutte le arti erano a servizio della musica.
Straordinari rimangono l’aria di disperazione di Orfeo: “Chiamo il mio ben/ Objet de mon amour”, l’arioso del protagonista, che giunge stupefatto in Paradiso ed esprime il suo incanto con “Quel nouveau ciel pare ces lieux /Che puro ciel”, dove la voce di Orfeo si irradia nell’aria con l’oboe che ci accompagna nell’Empireo, sostenuto dagli assolo di flauto, violoncello, fagotto e corno, e con l’accompagnamento degli archi; e il continuo e celeberrimo rondò “J’ai perdu mon Euridice/Che farò senza Euridice?” del terzo atto. Come non ricordare poi le danze degli “spiriti beati” e quella delle “furie”, solo per citare alcune delle meraviglie musicali disseminate in questo capolavoro.
John Fulljames e Hofesh Shechter, che è anche coreografo, immettono la vicenda in uno spazio aperto, in cui i sentimenti regnano sovrani, aiutati dalla scenografia spoglia di Conor Murphy. L’orchestra è sempre presente sul palcoscenico, muovendosi in alto e in basso, e lasciando spazio agli ambienti: nel primo atto si solleva mostrando una sorta di cripta, davanti alla quale si celebra la cremazione del corpo di Eurydice; nel secondo è circondata dal coro e dalla danza che diventano un tutt’uno; nel terzo i due innamorati si fronteggiano in uno spazio sempre più circoscritto. Mentre nel finale è ancora il balletto di Shechter a farla da padrone.
Dobbiamo però confessare che abbiamo poco amato le sue coreografie, come pure i costumi di Murphy, generici e poco allineati alle atmosfere apollinee di Gluck.
Tra l’altro la visione dello spettacolo dai palchi rimaneva fortemente condizionata e privata di una visione agevole e completa.
Ci hanno invece convinto le luci di Lee Curran, riprese qui da Andrea Giretti, che percorrono in modo significante tutta l’opera, anche con l’aiuto delle lanterne che illuminano i momenti di cupa disperazione del protagonista.
Abituati ad ascoltare Orfeo attraverso una voce femminile (Ferrier e Horne su tutte, ma c’è anche una versione con baritono), siamo stati molto contenti di ascoltare Juan Diego Florez, che abbiamo visto diverse volte con entusiasmo dal vivo, soprattutto in Rossini e Donizetti, in cui eccelle. Qui in una vocalità assai differente (haute-contre cioè tenore acutissimo) ci ha nel complesso convinto, attraverso l’esemplificazione dei diversi accenti che caratterizzano il suo personaggio: la disperazione per il perduto amore, la speranza, la tenerezza, il senso di colpa.
Accanto a lui una bravissima Christiane Karg come Euridice, che cesella benissimo l’aria “Cet asile aimable et tranquille”, e il soprano egiziano Fatma Said, in costume dorato, che posizionata spesso accanto all’orchestra, come Amore, rappresenta il vero deus ex machina della vicenda.
Michele Mariotti conduce in maniera encomiabile l’orchestra posizionata sul palco, come ai tempi di Gluck (privandoci a volte, in questo modo, della giusta sonorità), sottolineando le varie atmosfere che l’opera suggerisce: inferno e paradiso, gioia e disperazione sono resi con equilibrata adesione emotiva. Il coro diretto da Bruno Casoni, assai presente e importante in quest’opera, asseconda egregiamente, anche con i suoi movimenti, le intenzioni del direttore.
Orphée et Euridice
Christoph Willibald Gluck
Hofesh Shechter Company
Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Produzione Royal Opera House, Covent Garden, London
Direttore Michele Mariotti
Regia Hofesh Shechter e John Fulljames
Coreografia Hofesh Shechter
Scene e costumi Conor Murphy
Luci Lee Curran riprese da Andrea Giretti
CAST
Orphée Juan Diego Flórez
Euridice Christiane Karg
L’Amour Fatma Said
Durata spettacolo: 2 ore e 30 minuti incluso intervallo
Visto a Milano, Teatro alla Scala, l’11 marzo 2018
Prima rappresentazione al Teatro alla Scala nella versione francese