La vita di provincia che ti risuona dentro. Col suo corredo di sogni e frustrazioni, progetti e mortificazioni. Con la sua noia. E le esperienze maledette, a rischio di lasciarci la pelle.
Noi ragazzini degli anni Ottanta al Sud avevamo una grande passione per i fumetti. Passavamo i pomeriggi assolati d’estate, alla controra, tra partite di pallone col tango mezzo sgonfio, asciugamani stesi su dune di sabbia, immaginari eroici ed erotici. E musica a palla. Con i nastri delle musicassette che ogni tanto finivano avvoltolati nello stereo.
I genitori ci lasciavano tranquilli. Facevamo le prime esperienze sul mondo. Nelle serate appartate affiorava la consapevolezza di che cosa fosse la droga. Era facile vedere ragazzi e ragazze bucarsi tra le auto parcheggiate. O camminare come zombie strafatti. Per terra si trovavano siringhe. Bisognava badare dove si camminava, per non finirci sopra.
Il Sud, la periferia, l’eroina. Oscar De Summa, talento sempre meno latente della scena italiana, affronta il tema della droga nella provincia pugliese degli anni Ottanta. Il suo “Stasera sono in vena” gli è valso le nomination come “Miglior novità italiana” e “Miglior drammaturgia” al Premio Ubu 2015. Un monologo, in cui De Summa trascina il pubblico recitando seduto. Un campanello e un microfono gli bastano per creare scenari evocativi di una provincia che in fondo era la stessa in tutta Italia. A fare il resto è la voce proteiforme di quest’artista di Erchie, voce capace di misurarsi con colonne sonore epocali: Pink Floyd, Leonard Cohen, Iggy Pop, David Bowie.
Blues e intimità, rock e distruttività. Mille voci, mille luci. Mille ombre, e desideri di libertà stritolati tra fantasia e morte.
Oscar, com’è nato “Stasera sono in vena”?
Sentivo il bisogno di raccontare una storia italiana tenuta a lungo nascosta, per pudore o per rimozione. Volevo parlare degli anni Ottanta, vissuti tra edonismo e disperazione. Dei ragazzi che morivano d’overdose. Degli adulti intenti a far soldi, che s’illudevano di comprare la felicità anche per i figli.
È stata anche la tua esperienza?
Ho un passato da tossicodipendente. Ho visto morire troppi amici. Ho scritto questo spettacolo per comprendere come ho potuto essere così cretino.
Una storia tutta autobiografica, dunque?
Ho messo insieme elementi non veritieri ma autentici. “Stasera sono in vena” è la sintesi delle storie che ho ascoltato. Delle interviste che ho raccolto.
Conclusioni?
Fu una sorta di guerra civile, con tante vittime.
Vittime di che cosa?
Della società che non offriva risposte. Della politica che non formulava proposte.
Vittime anche di voi stessi. Forse.
Alla base c’era un senso di disagio che ha sempre attraversato le generazioni dei giovani. E che è approdato nei vari decenni a esiti diversi: gli opposti estremismi negli anni Settanta, l’eroina negli anni Ottanta, l’anoressia e la bulimia negli anni Novanta. Fino alle droghe sintetiche di questi anni, con derive che arrivano al cyberbullismo, alle slot machine, persino al fenomeno dei “foreign fighters”. Jacques Lacan, riferendosi ai giovani, parla del “bisogno di togliersi dal corpo dell’altro”. L’atto ribelle contro la società nasce da uno slancio idealistico. Dal desiderio di modificare le cose.
Un desiderio in parte velleitario, che si è spesso tradotto in un mix di violenza e catarsi. A volte sembrava prevalere la voglia di distruggere. O di autodistruggersi, come avvenne negli anni Ottanta con le droghe.
Fu un’ubriacatura collettiva. In mancanza di una base solida, quando le generazioni più anziane tendono a mantenere le distanze, giudicano senza la volontà e la capacità di comprendere, gli impulsi verso il cambiamento portano i giovani a demolire senza costruire.
Tu quando e perché hai cominciato a demolirti?
Ho avuto un approccio alle droghe molto precoce. A 13 anni ho iniziato a fumare le prime canne, per noia e per curiosità. Poi c’è stato un momento in cui a Erchie, nel Brindisino, dove sono nato e cresciuto, l’hashish sembrava scomparso. L’unica roba che circolava era l’eroina. Così ho iniziato a bucarmi.
Sembrerebbe più cazzeggio che disagio. E i tuoi che dicevano?
Facevano finta di non vedere. Una sorta di rimozione e autoassoluzione. Solo quando l’uso è diventato quotidiano ne hanno preso atto. Allora mi sono stati vicini. Mi hanno invitato a smettere. Mi hanno spinto a entrare in comunità, a Reggio Emilia. Dove sono rimasto dai 18 ai 20 anni.
E poi?
Ho conosciuto già all’interno della comunità qualcuno che mi ha aiutato a esprimere la mia vocazione artistica. Una volta uscito, sono andato a Firenze. Ho studiato la commedia dell’arte con Antonio Fava. Ho iniziato a far teatro.
Potere salvifico dell’arte?
L’arte è salvifica perché la passione è salvifica. È un antidoto alla noia e al nichilismo. Un canale delle proprie energie. Un modo per conoscere se stessi e per scavare nella propria condizione.
Quando hai capito di avere talento?
Ho sempre avuto una tendenza all’arte. Mi piaceva dipingere, scrivere, leggere. Ho studiato musica, pianoforte e fisarmonica.
E quando hai trovato il coraggio di mettere in scena la storia che racconti in “Stasera sono in vena”?
Quando ho capito che riguardava non solo me, ma migliaia di persone. Quando sono uscito dal cerchio della solitudine. Ci sono voluti anni. Ho compreso che era un dolore che non mi riguardava più. Ma adesso sento l’esigenza di condividerlo con gli altri, soprattutto con i giovani. Che mi seguono con partecipazione, perché il dolore è un sentimento che avvicina.
Che cosa vuoi comunicare ai giovani?
Devono scoprire la propria passione. E canalizzare le proprie energie in essa.
E ai tanti giovani che affermano di non avere alcuna passione?
Impossibile. Tutti hanno una passione e un talento. Quando non emerge è perché non hanno incontrato qualcuno che gliel’abbia fatta scoprire. Ad esempio la scuola, un amico, un insegnante.
La Puglia ultimamente sembra aver riscoperto anche a teatro una vena passionale e creativa che sembrava fermarsi a Carmelo Bene ed Eugenio Barba. E invece, ecco un pullulare di nuove compagnie e nuovi drammaturghi, registi, attori: Fibre Parallele, Principio Attivo, Vico Quarto Mazzini, Cantieri Koreja, Crest, Factory, Compagnia del Sole, Sinisi, Santeramo, Berardi, Saccomanno. Potremmo continuare. Come spieghi questi fermenti?
Non me lo so spiegare. Però la forza di questi artisti sta nell’apertura alla relazione con il mondo. Nelle esperienze multiple, che attraverso viaggi, incontri, collaborazioni, portano a sviluppare identità multiple. Abbiamo tutti un legame fisico ancestrale con la nostra terra. Attraverso l’arte abbiamo mantenuto il contatto con la campagna, la natura, valori come il senso della comunità e la solidarietà. Però abbiamo anche saputo rinnovarci, collegarci con il nuovo. Credo che la nostra capacità di raccontare e raccontarci sia forte. Deriva dal connubio tra le nostre realtà d’approdo e quel retroterra antropologico e socioculturale con cui non abbiamo mai smarrito il contatto.
Per te quali incontri sono stati fondamentali?
Quello con Claudio Morganti, per il suo modo di fare teatro così affascinante e artigianale. Poi quello con Barbara Nativi, per la sua vena sperimentale, la sua ricerca creativa nella drammaturgia straniera contemporanea. E infine quello con Thierry Salmon, con il suo teatro fisico intimista e coreografico.
A parte il teatro, com’è la tua vita?
Parlo con gli amici. Viaggio molto, in Italia e all’estero. Soluzioni spartane, lontano dal chiasso, in silenzio. Cerco di stare collegato con il mondo e la vita reale. Non voglio chiudermi in una torre autoreferenziale. Non mi guardo troppo allo specchio. Distinguo fra arte e vita. Tra i miei amici quasi nessuno fa teatro. Cerco di non diventare la controfigura di me stesso.
Che cosa ti resta dell’esperienza con la tossicodipendenza?
Il senso di fragilità. La consapevolezza che si può cadere proprio quando non si riconosce quel senso di fragilità. Che ci rende umani e ci mette in contatto con gli altri.
STASERA SONO IN VENA
di e con Oscar De Summa
una produzione La Corte Ospitale
in collaborazione con Armunia Festival
Visto a Milano, Atir Teatro Ringhiera, il 29 gennaio 2016