Per Stefano Cordella, Dario Merlini e Noemi Radice il romanzo di Svevo diventa tragicomico cimitero dei buoni propositi
Ardua è l’impresa che si è posta la compagnia lombarda Oyes nel mettere in scena, donandogli la possibilità di parlare anche dell’oggi, “La coscienza di Zeno”, romanzo di Italo Svevo pubblicato nel 1923. L’opera di Svevo, infatti, propone in forma autobiografica le memorie di Zeno Cosini, figlio di un ricco commerciante, attraverso la riscrittura che ne fa il suo psicanalista (che non per nulla viene chiamato con la sola iniziale S, con evidente riferimento a Freud), da cui si è recato per liberarsi dal vizio del fumo.
“La coscienza di Zeno” è uno dei romanzi italiani più importanti del ‘900, che inaugura in un certo senso nella nostra letteratura il monologo interiore, con il conseguente continuo intrecciarsi dei piani temporali della narrazione; un romanzo che persino James Joyce, sentendolo vicino al suo modo di concepire la scrittura, ammirò molto.
Zeno è un individuo molto particolare, e lo vediamo anche dalle sue scelte di vita. E’ un uomo che cerca in modo spasmodico di guarire dal vizio del fumo, che lo spinge ad accendersi una sigaretta dopo l’altra, considerandola sempre l’ultima. Un vizio che, ad un certo punto, intende esemplificare al dottor S come un riflesso del senso di colpa nei confronti del padre, con cui Zeno ha avuto sempre un rapporto assai difficile, una specie di padrone interiore con cui ha dovuto convivere e che, in punto di morte, si è anche materializzato con uno schiaffo.
Lo spettacolo esemplifica tutto questo per mezzo del rapporto stretto tra Zeno e il dottor S (Fabio Zulli e Dario Merlini), mentre alcune figure della vita del protagonista gli girano intorno come fantasmi, rompendo il dialogo tra paziente e medico, ed interagendo con i ricordi del malato tra realtà e sogno: la moglie Augusta, che ha scelto quasi per caso di sposare, visto che la sorella di lei, Ada (Francesca Gemma), ad un certo punto, pur ambita, aveva scelto come marito Guido Speier.
Lo stesso Guido (Francesco Meola) è una sorta di contraltare di Zeno, in apparenza senza inettitudine, ma che più tardi tradirà la moglie, lasciando un debito assai cospicuo e suicidandosi poco dopo, senza che il nostro protagonista abbia preso la decisione di aiutarlo.
Insomma traspare benissimo, anche teatralmente, come in ogni sfera della vita di Zeno (ma non solo della sua) si senta inadeguato, non sapendone al contempo spiegare le ragioni. Nella sua continua incertezza, pur essendo amato da Augusta, che si dimostrerà colma di quella vitale concretezza di cui si sente privo, si troverà anche un’amante, che starà con lui solo per i suoi soldi, ma che dopo un po’ lo lascerà per un maestro di canto.
Ad un certo punto, comunque, Zeno deciderà di essere guarito e di non aver più bisogno di cure: attraverso questa decisione emerge la critica al metodo psicanalitico del medico; al contempo Zeno auspica una sorta di fine del mondo che possa rimettere tutto a posto, facendo in questo caso riferimento allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, che ha fatto rifiorire i suoi affari.
Zeno non ha dunque più bisogno dello psichiatra così, strappando i fogli del quaderno di S, scopre (con un’evidente poca considerazione delle teorie freudiane) che sono completamente bianchi, nonostante per tutto il tempo lo psichiatra sembrasse scrivere appunti.
Secondo Svevo, in ultima analisi, la malattia messa in campo nel romanzo può essere paragonata alla malattia del mondo, l’infezione di una civiltà malata, la cui unica chance di redenzione potrebbe essere il suo annientamento totale.
Lo spettacolo, nel tentativo di rendere attuale il romanzo, lo ambienta in una specie di museo contemporaneo di cui vediamo sin dall’inizio il custode, Daniele Crasti. Un museo scarno, senza interesse apparente per il visitatore, ovviamente pieno di fumo, e con un’illuminazione sempre traballante. I pannelli esplicativi ci indicano i nomi dei protagonisti e quello vero di Svevo, Aron Hector Schmitz, e proiettori per diapositive illustrano al pubblico i vari titoli dei capitoli del romanzo, con in evidenza la fotografia del problematico padre e annesse teche per reperti. Tutto dunque appare come un reperto archeologico, il Novecento stesso lo è, in quanto “è finito”, come urla furente Livia Castiglioni, la moglie Augusta, il personaggio meno inetto in tutto il contesto, scaraventando ad un certo punto per terra le due pesanti sedie del marito e dello psicanalista.
Ma è soprattutto nel finale, nel colloquio ultimo tra il guardiano e Zeno, che la drammaturgia di Stefano Cordella, Dario Merlini e Noemi Radice pone l’essenza della contemporaneità dello spettacolo, con le continue considerazioni, in verità troppo didascaliche, attraverso cui vengono sottolineate tutte quelle caratteristiche di nuovo mondo auspicate da Zeno, e che oggi si stanno avverando: alla fine l’uomo, anche quello contemporaneo, sta estinguendosi in un mondo, in una natura, che egli stesso ha contaminato irrimediabilmente.
Gianluca Agostini, che ha curato le musiche, accompagna lo spettacolo significativamente con la canzone di Ron “Vorrei incontrarti fra cent’anni”, e sul finale, mentre scende un lampadario a forma di luna piena per consolare la solitudine di Cosini, risuona “Vanishing act” dei Lou Reed.
Complicato, come anticipato in apertura, mettere in scena un romanzo siffatto, che la compagnia Oyes propone con coraggio ed estrema cura al pubblico del LAC di Lugano, dopo il debutto al Metastasio di Prato, che lo coproduce; meno intriganti ci paiono invece le scelte per rendercelo più vicino di quanto già non ci riesca, e in modo esemplare, lo sviluppo stesso di questo capolavoro.
La coscienza di Zeno
uno spettacolo di OYES
produzione Teatro Metastasio di Prato | LAC Lugano Arte e Cultura | Teatro Stabile del Veneto | OYES
regia Stefano Cordella e Noemi Radice
testo di Stefano Cordella | Dario Merlini | Noemi Radice
con Livia Castiglioni | Daniele Crasti | Francesca Gemma | Francesco Meola | Dario Merlini | Fabio Zulli
scene e costumi Stefano Zullo
disegno del suono e musiche originali Gianluca Agostini
disegno luci Alberto Biasutti
consulente / dramaturg Simone Faloppa
assistente alla scenografia Nina Donatini
assistente ai costumi Federica Famà
foto di scena Luca Del Pia
organizzazione Carolina Pedrizzetti | Irene Romagnoli
con il sostegno di Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave / Kilowatt)
durata: 1h 45′
Visto a Lugano, LAC, il 17 febbraio 2022