Al festival romano organizzato da Triangolo Scaleno, anche Cie MF, Chiara Lagani, Roberto Corradino e Giovanna Velardi
Due sono le proposte andate in scena a Teatri di Vetro con la coreografia e la danza di Paola Bianchi, artista di casa al festival romano fondato e diretto da Roberta Nicolai.
“Brave” può essere inteso come il diminutivo di Valentina Bravetti, in scena con Paola nel duo. Ma brave è anche “coraggiosa” in inglese, e riguarda forse quel coraggio di tornare in scena dopo otto anni e una malattia che non ti fa più muovere le gambe. È una danza a terra quella delle due danzatrici, frutto di quattro anni di ricerca tra corpi con abilità differenti.
“Brave” è un lungo abbraccio, è l’esser presenti l’una all’altra, è un flusso che inizia in coppia e prosegue con un movimento di Valentina che viene verso il pubblico, che si trova seduto sul palco attorno allo spazio scenico. Ma lo spettacolo è anche un rituale, e diventa una danza collettiva quando il pubblico viene invitato sulla scena a danzare, rigorosamente a terra.
Si potrebbe definire un “format” invece “Fabrica 16100 (Genova)”, un assolo di Paola Bianchi costruito dalle biografie di operaie che sono state intervistate in questo originale progetto, che unisce testimonianze sul lavoro e danza. In questo caso l’operaia si chiama Luciana, ed è stata per dieci anni operaia al Tubettificio Ligure.
Ogni città una storia di operaie. Ogni replica un riadattamento della performance in base allo spazio.
In questo caso l’uscita di sicurezza della sala del Teatro India, che era la fabbrica Mira Lanza, è lo sfondo della scena più intensa dello spettacolo, quando si sente un bussare incessante senza risposta. Un’immagine che potrebbe rimandare a porte chiuse, diritti dei lavoratori negati… Come per “Brave”, anche “Fabrica” è un chiaro invito, da parte di Paola Bianchi, alla riflessione, ad avere uno sguardo critico e lucido.
Un altro spettacolo da ricordare in questa 17^ edizione di Teatri di Vetro è sicuramente “Onde”, con la coreografia di Simona Bertozzi. Qui le musiche dialogano incessantemente con i tre giovani danzatori, a creare un flusso, un vortice animalesco, un cerchio che sembra infinito.
Arianna Brugiolo è candida, elegante; Rafael Candela statuario ed eccentrico; Valentina Foschi è intensa, carnale. I tre performer evidenziano una loro specificità, quasi una loro attorialità, ma sanno anche diventare ensemble nelle scene corali.
In “Onde” ciò che è interessante è il rapporto fra due generazioni: quella della coreografa e quella dei performer. Sembra che Simona Bertozzi riesca pienamente a tratteggiare la generazione dopo di lei. E probabilmente in quella danza ci sono anche le inquietudini, le speranze dei tre performer. “Onde” è un pezzo emozionante, che ha forse l’unico difetto di arrovellarsi un po’ troppo nei numerosi finali.
Nei giorni di Teatri di Vetro abbiamo assistito anche all’”Autobiografia” danzata che attraversa la produzione artistica ventennale di Giovanna Velardi e al monologo “Fragolina” in cui Roberto Corradino riflette, insieme a noi, su un tema tanto discusso su social e giornali ma ancora poco protagonista a teatro come l’Intelligenza Artificiale.
Il primo, come spiega il sottotitolo “Ceci n’est pas une/mon autobiographie”, è un tentativo di messa a fuoco della carriera della coreografa siciliana; il secondo un rimuginamento dell’attore pugliese che, consultando il suo smartphone, si interroga sull’evoluzione umana.
Entrambi i lavori incuriosiscono, a tratti ci spiazzano, tuttavia a distanza di pochi giorni rimane poco.
Il festival si conclude con tre lavori i più diversi per linguaggio. “Ça ira” di Cie MF è una drammaturgia danzata ironica, con momenti di esplicita comicità quasi gribaudiani, in cui non mancano frammenti di teatro fisico e lacerti parlati. Il tutto è costruito attorno a nuclei tematici, come quello del ritorno, del numero tre (tre sono i performer la figura del triangolo è centrale nei movimenti, nel disegno della scena sul palco ecc.), e quello ornitologico, a partire dalle civette della conta infantile, fino alle metafore del corteggiamento, sfiorando quel frusciante e garrulo carnevale che i Muta Imago imbastivano col loro “Combattimento“.
Del teatro post- o ultra-partecipativo di “Maternità” di Chiara Lagani varrebbe la pena di provare a parlare con più distensione, non solo da un punto di vista drammaturgico, ma anche mediologico.
Si tratta di un monologo tutto rivolto al pubblico, in cui Lagani impersona in una duplice capriola di autofiction Sheila Heti, la protagonista del racconto omonimo.
Più di quarant’anni, già verso i cinquanta, si chiede se avrà mai un figlio, si chiede anzi di che natura sia e se veramente abbia uno spazio reale in lei il desiderio di averlo, di domandarselo. Questo martellante interrogativo, peraltro posto con una particolare leggerezza, esente da tratti ossessivi, declinato poi in innumerevoli domande-corollario, è come estroflesso, oggettivato nel dialogo con il pubblico, fornito di un piccolo telecomando con il quale si può, come in un plebiscito digitale, orientare la risposta agli interrogativi della protagonista in scena e addirittura dirigere (così sembra, se non è un’illusione, o se almeno non vi sono appuntamenti fissi nella trama) il corso degli eventi, su un palco tinto di quella particolare atmosfera trasparente eppur inquieta tipica dei lavori di Fanny & Alexander.
Vogliamo però dedicare qui un po’ di spazio al progetto più aperto a sviluppi, perché ancora in fase di evoluzione (come è d’altronde nel più autentico stile di Teatri di Vetro), “Somewhere” di Lucia Guarino e Ilenia Romano. Non è la prima volta che Guarino, architetta oltre che danzatrice, si interroga sul rapporto tra spazio architettonico e corpo: va citato, sempre al festival romano, il laboratorio “in.col.to.“, la cui restituzione si tenne al teatro del lido di Ostia due anni fa, e “Superstite”, che ricordiamo come un rito di purificazione in rapporto a uno spazio deputato, un rettangolo disegnato dalle luci sul palco.
In “Somewhere” la coreografa si associa nella ideazione, costruzione ed esecuzione del progetto a Ilenia Romano, la cui prestanza scenica, in rapporto all’aerea presenza di Guarino, è squassante. L’esordio del lavoro è dedicato alla proiezione di immagini di risapute architetture-monstre (Corviale, le Vele di Scampia…), che contemporaneamente orientano e respingono lo sguardo in un fuori.
I corpi in scena entrano dopo e, anche loro, “all’esterno” di quegli spaventosi vuoti/pieni proiettati a tutta scena sul fondale. Sotto le luci ascetiche di Gianni Staropoli (tubi fluorescenti appena stondati da frontali neutri) la cinèsi improvvisamente esplode e il corpo di Romano e quello di Guarino sono presi a turno da una fibrillazione che è totalità di pieno nervoso, muscolare, elettrico, ma, anche qui come nei volumi in cemento armato, un pieno afasico, sfuggente di senso, che si consuma in sé. E, anche qui paradossalmente, è in questa afasia dei due corpi (così diversi nel reagire all’attraversamento di una vibrazione simile, tanto nei movimenti ipnoticamente rallentati dell’inizio quanto in quelle fibrillazioni) che si nasconde il mistero di una non rassegnata, dolorosa negazione, che neppure il finale caldo di luce può far venire meno, neppure nell’incontro delle due solitudini.
Quell’eventuale reciproca ricerca, più che abitare lo spazio (non lo fanno molto più delle proiezioni, che tornano con altri non-luoghi, come una decadente facciata razionalista), fa sì che i due esseri, in quel loro precipitare attorno a un vuoto, cerchino disperatamente uno spazio abitabile, un altro “pieno”, stavolta non meno topografico che interiore.