Quando l’abbiamo incontrato nei camerini del Teatro dell’Elfo a Milano era in elegantissima vestaglia di seta a bande verticali rosse e blu, ma per l’intervista di Krapp ha voluto mettersi in frac.
E’ bastato dargli il la per togliere gli argini a un fiume in piena, inarrestabile. Tanto che, dopo la prima domanda, le altre quasi non siamo riusciti a farle.
Paolo Poli è così. Divoratore della vita, appassionato istrione, mattatore dalle mille sembianze, cantore di una letteratura che rischia un drammatico oblio. Non è un caso che, oltre al recentissimo “Il mare”, ispirato ai testi di da Anna Maria Ortese raccontati con lo sfondo delle scene di Lele Luzzati, o il precedente “Sillabari” da Parise, Poli continui a cercarsi e a cercare le ragioni del nostro tempo nel Novecento.
Lo ammette anche a noi in forma candida: lui è uomo del Novecento. E’ figlio del secolo breve, dei suoi patimenti, delle sue sciagure e dei suoi sogni, delle sue manie e dei finti vezzi. Un lasso di tempo in cui, dagli anni Trenta agli anni Settanta, è successo praticamente di tutto, e non a caso, è lo stesso lasso di tempo lungo il quale Anna Maria Ortese ha composto i racconti che Poli porta in scena.
La vecchia tecnica del cabaret, della rivista, con sketches e intervalli. Una modalità narrativa quasi del tutto scomparsa, che la generazione fra i trenta e i quaranta ricorda nelle sue ultime propaggini televisive, intervallata dalle sigle di Carosello.
Eppure in queste storie di un’Italietta in boom ci sono tutti i temi della vita, quelli che raccontano l’umano di sempre: l’infanzia infelice ma luminosa, l’adolescenza insicura ma traboccante, l’amore sfiorato ma mai posseduto. L’immancabile canzone, la canzonetta, il motivo orecchiabile con cui quell’Italia mandava a memoria il quotidiano, finanche il politico. A volte sono cose talmente perse nella memoria che il ripescaggio di Poli, per chi non può ricordare, finisce per assumere i toni del surreale: impossibile sia potuto succedere veramente. E invece sì.
Un esempio per tutti la canzonetta “Sanzionami questo”, che un cantautore degli anni ’30, Rodolfo De Angelis, volle dedicare all’ex alleata Gran Bretagna. La vicenda risale ai tempi in cui, dopo aver conquistato l’Abissinia proprio in quegli anni ’30, l’Impero Italiano subì le sanzioni della Società delle Nazioni, sotto la guida della Gran Bretagna. Il ritornello veniva accompagnato dall’esplicito gesto di mascolina rozzezza delle braccia, prima allargate in avanti con i palmi rivolti verso l’interno e poi portate ai genitali.
Poli rievoca tutto. Ci ricorda quello che siamo stati: levità e decadenza, sogno e merda. A tratti, una rivista d’un tempo che fu; a ben guardare, è lo scandaglio di un dna nazionale, con sue chiare ed esplicite radici. Continuamente alla ricerca di piccoli ducetti da portare alla ribalta e all’ombra dei quali perpetrare ogni forma di camurrìa. Guai a dimenticare, sembra volerci dire Poli.