Paravidino e le “storie infinite” di Johnny e Gill. Intervista

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Photo: Vincent Berenger|A sinistra Fausto Paravidino (Photo: Vincent Berenger)|Photo: Vincent Berenger

Nel 2002 il regista Aleksandr Rogožkin scrive e dirige una bizzarra pellicola dal titolo “Kukushka – Disertare non è reato”, ambientata nella Lapponia del ’44 nel bel mezzo degli scontri fra Armata Rossa e truppe naziste. Il film, che vede al centro solo tre personaggi (il cecchino finlandese Veikko, il tenente russo Ivan e la lappone Anni), affronta – in un misto di ironia e di amaro realismo – le reciproche incomprensioni fra i protagonisti, nonché il loro strenuo tentativo di comunicare. Di costituire cioè, letteralmente, una piccola comunità. Alla fine (perdonate lo spoiler) compaiono in scena, come nella migliore tradizione fiabesca à la Basile-Garrone, due assorti gemellastri (fratelli coetanei di padre diverso).

In maniera del tutto preterintenzionale quest’ultimo spettacolo di Fausto Paravidino, che ha calcato il palco del Teatro Gobetti di Torino per ben due settimane, ricorda da vicino quel film russo.

“La ballata di Johnny e Gill” è innanzitutto una storia. Una bella storia. Quello che, sulla carta, poteva rischiare di apparire come l’ennesimo e snobistico repêchage in blue jeans di un tema antico (dall’audace durata, per di più), si rivela invece uno spettacolo “potente”, sebbene il pubblico della seconda replica non sia stato, invero, particolarmente caloroso.

Estremamente agile è la scrittura di Paravidino, che riesce a trasformare le oltre tre ore di durata della rappresentazione in un guizzo rapidissimo. Nel foyer è offerta agli spettatori in generosa dote, unitamente all’immancabile programma di sala, la mappa narrativa dell’opera, testimonianza di una generosa disposizione dell’autore-attore. Viene qui espresso il suo programmatico intento (che è poi anche la spiegazione del perché non vi siano soprattitoli in uno spettacolo multilingue come questo): «Lo spettatore italiano più cosmopolita potrà cogliere meglio le cose che dicono gli stranieri che parlano inglese e francese ai nostri eroi; chi invece parla solo l’italiano farà esattamente il viaggio che fanno i nostri migranti, imparando a conoscere il mondo post-Babele insieme a loro e attraverso di loro».

Segue poi la scansione di questa “after Babel play”, suddivisa in prologo, argomento ed involuti episodi, per un totale di due atti (il ruolo degli stasimi è idealmente affidato alle molte parti cantate che interrompono, o meglio si inseriscono, nel continuum diegetico).
La prima parte del dramma fiabesco – tale è infatti “La ballata di Johnny e Gill”, giacché attraversa, come le varie biancanevi e rosespina, quelle consuete tappe narrative a cui Vladimir Propp dà il nome di funzioni – la prima parte, si diceva, segue i due protagonisti, il neo-Abramo Johnny e la neo-Sara Gill (ottimamente interpretati da Federico Brugnone e Iris Fusetti), dal banco dei “pesci gialli” fino al Nuovo Mondo, presso cui la coppia approda – fra mille peripezie – sperando di poter finalmente veder realizzato il proprio sogno. Fuor di metafora, è il sogno “americano”.
Accanto a loro, la spalla comica Lucky (interpretato dallo stesso Paravidino), genera una fitta serie di calembour e di siparietti comici. A chiudere l’atto primo, la lunga sequenza del faraone/gangster, al quale presta volto, corpo e voce il bravissimo Aleph Viola (in seguito nelle vesti di Isacco).

In un tourbillon di proiezioni, melodie e sketch si passa d’un fiato alla seconda metà. Una menzione speciale meritano Yves Bernard (scene), Arielle Chanty (costumi) e Stefano Ciammitti (maschere), per l’ottima composizione scenotecnica e ottica. Ogni oggetto, ogni movimento, ogni minima cromia, risalta sul fondale oscuro.
Ospitati al “Ted Telliman Late Night Show”, Johnny e Gill – ormai divenuti monarchi dello street food – raccontano la propria esperienza passata. All’orizzonte fa nel frattempo capolino un nuovo sogno: quello di mettere al mondo un bambino. E così tutta la sezione finale si riallaccia al tema del figlio dell’Alleanza: dapprima la vicenda di Agar e di Ismaele, tradotta nei termini di una gravidanza con madre surrogata; dopodiché l’arrivo del tanto atteso erede, Junior/Isacco, annunciato da due cicogne proprio mentre i protagonisti sono pronti per andarsene in Florida.
Le redini della storia, a questo punto, passano in mano alle nuove generazioni, mentre Gill si spegne lasciando da solo l’amato Johnny.

Tra le scene più significative ricordiamo quella della spiaggia, dove i naufraghi Johnny, Gill e Lucky si risvegliano, una volta scampato il pericolo, cominciando lentamente ad apprendere, alla maniera dei fanciulli, vagiti e frammenti di broken English, procedendo per imitazione e sbagli: «Prima impari le parole, il loro suono, poi pian piano ne imparerai il significato».
Di forte pathos e di stringente attualità è invece la sequenza immediatamente precedente, ossia quella della prigionia nel deserto e della nefasta traversata oceanica, durante la quale trova la morte la new entry del gruppo, una giovane donna costretta a dare alla luce il proprio bambino su uno scalcinato vascello. La interpreta con grande intensità l’attrice Fatou Malsert (nel secondo atto la ritroviamo nella parte di Agar e di Rebecca, fidanzatina francese di Junior/Isacco). Nel cast anche Daniele Natali (il bislacco presentatore) e Tibor Ockenfels.

A sovrintendere all’azione sono, come dei ex machina, Dio e le sue emanazioni: il barista, il tassista… “Che Dio t’assista”. What God taxi driver!

A sinistra Fausto Paravidino (Photo: Vincent Berenger)
A sinistra Fausto Paravidino (Photo: Vincent Berenger)

Abbiamo incontrato Fausto Paravidino lo scorso 16 gennaio proprio per parlare de “La ballata di Johnny e Gill” e delle riflessioni suscitate.

Nel programma di sala, descrivendo la genesi dello spettacolo, parli di una gestazione piuttosto tortuosa. Insomma, un’avventura per scrivere un’avventura.
Sì, “La ballata di Johnny e Gill” è nata proprio così, da una serie di avventure e disavventure. Per capirci dobbiamo riavvolgere il nastro fino ai tempi dell’occupazione del Teatro Valle: era il 2012 e lì, da uno studio, nacque “Il macello di Giobbe”, una mia personale riscrittura della storia di Giobbe, intrecciata con la crisi economica del 2009, la crisi cioè di quell’epoca storica nella quale ancora viviamo. La produzione fu un grande atelier, nel senso che era stata pensata come una produzione che “producesse” formazione. Tra le altre, si operò anche sulla dimensione della scrittura: sebbene il testo l’abbia poi scritto tutto da me, ne approfittammo in quell’occasione per intervistare alcuni economisti e biblisti. La Bibbia infatti mi interessava. Mi interessava cioè come fiaba. E poi, proprio perché eravamo dei terribili marxisti e anarchici [ride n.d.r.], sentivo come ancor più forte l’esigenza di lavorare fianco a fianco con dei “religiosi”. D’altra parte, nel tentativo di parlare del contemporaneo, non volevo comunque adagiarmi sull’attualità. Volevo piuttosto capire, cercare, che cosa stesse accadendo di archetipico nel nostro tempo. Si parlava tanto di “crisi” allora (e a dire il vero se ne parla molto ancora oggi): così, quando quel termine divenne parola d’ordine, allestii un laboratorio di scrittura – che chiamai appunto Crisi – e cominciai a chiedermi quale fosse un racconto archetipico di questa crisi. Fu così che mi balenò in mente il “Libro di Giobbe”: la crisi dell’uomo permeato dall’idea che Dio lo salvi. Che è una crisi di senso terribile, perché Giobbe si trova costretto ad affrontare le più amare sventure pur essendo il più onesto, il più corretto, il migliore degli uomini.

Quella produzione gira soprattutto all’estero e nel frattempo il Valle viene sgomberato. Come si è passati da Giobbe ad Abramo?
Per via di due circostanze fondamentali: la prima fu che, attraverso la tournée estera del “Macello di Giobbe” ottenemmo l’interessamento della produzione di Toulon; la seconda si concretizzò sostanzialmente in un’ineludibile domanda: “Perché non trasformare la differenza linguistica in virtù?”. E allora ci siamo messi a progettare – Iris Fusetti ed io in partenza, poi allargando la compagnia – uno spettacolo che nascesse come produzione internazionale, che continuasse ad attingere alla Bibbia, ma che mettesse al centro della storia la confusione linguistica. Insomma, un tipico caso in cui è la condizione produttiva a tematizzare l’argomento dello spettacolo.

E di qui anche la scelta di non inserire alcun soprattitolo.
Esatto (in Francia però li usiamo, visto che “La ballata di Johnny e Gill” è in gran parte in italiano). Cominciamo quindi a studiare l’episodio della Torre di Babele (ed è bastato voltare qualche pagina per trovare nientemeno che la storia di Abramo); scopriamo che con Babele Dio confonde le lingue; studiamo un po’ Umberto Eco; e capiamo infine che questa separazione non è necessariamente da intendersi come una maledizione, ma può anche essere una benedizione. Come tutti i miti, anche quello della Torre ha un doppio volto: un lato giallo e un lato blu, come ci insegna “Inside Out”!
Da Babele, come si diceva, si giunge presto ad Abramo: Dio, dopo aver diviso le lingue, divide l’umanità – prima si presuppone ci fosse un’unica umanità, portatrice di una sola lingua. Produce dunque, confondendo le lingue, gli stranieri. La sua azione successiva è quella di creare il primo migrante della storia. Costruisce il proprio patto con un uomo la cui prima indicazione ricevuta è «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò». In altri termini, va’ via, che il mondo è diventato grande. Plurale. E di lì, senza sapere esattamente quale sia la destinazione, mille avventure.
Iris ed io siamo quindi partiti da questa vicenda e, compiendo in prima persona un viaggio, siamo andati a New York, capitale internazionale delle migrazioni, a cercare – un po’ per scherzo – il nostro Abramo. Ci “vestiamo” da migranti e lì iniziamo a costruire la storia, intervistando esperti di vario genere, facendo laboratori di teatro. Pian piano questi laboratori portano alla costruzione dell’opera e si sono trasformati in produzione.

“Migrante” è un sostantivo – quotidianamente strumentalizzato dai nostri politici – sul quale grava purtroppo una complessa simbologia negativa. Il tuo spettacolo, tuttavia, sembra farsi portatore di un messaggio di conciliazione. È così?
Certo. Io leggo il mito di Babele attraverso il filtro della mia esperienza personale, che è quella di uno straniero, per l’appunto. Sono uno che viaggia molto per lavoro, che spesso cambia casa. E ogni volta vivo lo sradicamento dal mio borgo natio con un misto di sgomento e di paura, perché perdo il mio “lessico famigliare”, mi trasferisco in una lingua che è apparentemente d’altri e non mia. Contemporaneamente, però, avverto anche una profonda curiosità e un senso di eccitazione, per cui torno felicemente a parlare la mia lingua sentendomi maturato, accresciuto, felice di aver messo in valigia “oggetti”, esperienze, che non voglio perdere, che voglio tenere per sempre con me.

La tua rilettura del mito di Babele e della fiaba di Abramo e Sara si deve necessariamente scontrare con la vexata quaestio: “Lingua è cultura(?)”. Wittgenstein diceva che «il linguaggio è un labirinto di strade: vieni da una parte e ti sai orientare; giungi allo stesso punto da un’altra parte, e non ti raccapezzi più». Esistono ancora lingue (e culture) pure oppure ormai ci sono soltanto più lingue (e culture) meticce (o globalizzate o bastarde, a seconda del punto di vista dal quale si giudica il problema)?
Beh, pensiamo per esempio agli inglesi, che sono tanto affezionati alla propria lingua e che, nel tempo, sono anche stati diciamo abbastanza imperialisti da imporla in tutto il mondo. Ecco che, oggi, possono permettersi di essere abbastanza scontenti del fatto che l’inglese più parlato sulla Terra non sia quello di Shakespeare o di Milton. Abbiamo così a che fare con due inglesi: qual è quello vero? Quello di Shakespeare e di Milton o quello più parlato da tutti?

È di pochi giorni fa la notizia, riportata da «El País», riguardante la sottotitolazione di Roma, il film del regista messicano – e quindi ispanofono – Alfonso Cuarón, disponibile in Spagna su Netflix e “tradotto” in castigliano peninsulare. Le diversità, spesso intrinseche ad uno stesso idioma, possono dunque diventare talmente acute da impedirci di comunicare, anche all’interno del medesimo gruppo linguistico. Una nuova deriva, una nuova Babele. Un corso inevitabile delle lingue, forse, ma nondimeno preoccupante, no?
Gli esperimenti di super-lingua perfetta, i vari esperanti, sono tutti – non a caso – falliti. E anche se tendiamo verso un inglese internazionale, questo inglese ci sfuggirà inevitabilmente di mano, perché ogni gruppo di quattro-cinque persone sarà sempre in grado di produrre un proprio lessico alternativo. E allora, tornando allo spettacolo, all’inizio noi – che siamo partiti da una presunzione, sperando di fallire e di scoprire qualcos’altro – volevamo ricostruire la Torre di Babele, pur sapendo che è cosa impossibile (Dio ce l’ha già vietato una volta!). E cercare – attraverso i nuovi media, i corpi, la danza, le pantomime – una nuova lingua teatrale che fosse da tutti intelligibile e che nel contempo non si riducesse ad una forma di cinema muto. Esplorare, attraverso il laboratorio, le lingue così da realizzare uno spettacolo internazionale. Lavorando abbiamo però scoperto che, molto più banalmente, ciò che più ci interessava era mettere in scena la difficoltà di intendersi fra persone che parlano lingue diverse. E quindi il nostro “linguaggio internazionale” non è diventato un linguaggio comprensibile a tutti, bensì un incontro di persone che parlano lingue diverse, che producono antiche gag basate sui false friends e che lentamente imparano a conoscere e conoscersi. Ha poi un ruolo fondamentale, all’interno dello spettacolo, il grammelot, per cui sembra che i personaggi si servano di una certa lingua, ma in realtà la comprensione non è legata alla sostanza significante delle parole, bensì alla pura recitazione. I personaggi si esprimono tramite i corpi.

Photo: Vincent Berenger
Photo: Vincent Berenger

Nella “Ballata di Johnny e Gill” non ti sei accontentato di far scontrare gli idiomi, ma hai anche scelto di contaminare vari linguaggi e codici espressivi: avanspettacolo e televisione, epica e multimedialità, maschera e musica. Hanno ancora rilevanza, sempre che ne abbiano mai avuta a livello estetico, le etichette (teatro di prosa, teatro comico, teatro musicale, danza, teatro-danza…)?
Per me non l’hanno mai avuto. La gente, quando non sa leggere, costruisce scaffali. Quando ancora esisteva Blockbuster i dvd erano divisi per genere: quelli belli però non sapevi in quale scaffale collocarli.

Sollevo la questione soprattutto pensando al dibattito fiction/nonfiction (il caso “Gomorra” & friends, per intenderci). Forse le categorie che costruiamo sono utili per capire meglio i fenomeni. Ma nella nostra aristotelica e spasmodica tendenza a voler ordinare tutto, non è che ci perdiamo qualcosa?
Nel caso di questo spettacolo qui, sicuramente. Quella di Johnny e Gill è una storia lunga, la storia di una vita. La vita di due persone che attraversano mille peripezie. E la vita non ha un genere. La vita ne attraversa molteplici. In particolare, qui troviamo due macro-sequenze: nella prima parte i due protagonisti compiono un viaggio iniziatico, da migranti; la loro azione principale è quella di salvarsi. Di conseguenza, il racconto non può che essere epico, ricco di avventure, un po’ alla “Big Fish”. Nella seconda parte, i due ormai hanno fatto i soldi, si sono sistemati nella Grande Mela. Sono pertanto costretti al dramma borghese: si tratta a questo punto di (cercare di) capire che senso abbia la vita che Johnny e Gill si sono creati fino a quel momento. Va da sé, dunque, che le coordinate – anche tecniche, espressive – mutino, almeno in parte.

Il tuo spettacolo si riallaccia alla Bibbia, un serbatoio sconfinato di storie, ma anche uno dei testi meno noti nel mondo cattolico, fra i laici credenti (a differenza di quanto avviene, ad esempio, in ambiente protestante). Come mai questa repulsione pregiudiziale?
I credenti, se va bene, leggono solo il Nuovo Testamento; gli altri non vogliono avere nulla a che fare con quel libro, neppure per curiosità. Credo che la ragione consista nel fatto che c’è di mezzo la religione. Non possiamo leggere le Sacre Scritture come un mito qualunque perché siamo costretti a tenere in conto tutto il risvolto di ordine confessionale. Allora ci rifugiamo nei miti greci, dicendoci: “Io provengo da lì! Il resto non mi riguarda”. Se non ci fosse di mezzo l’aspetto religioso potremmo forse rilassarci e leggere la Bibbia come un poema epico, come una saga, scoprendo che è intrisa di archetipi, che ci riguardano eccome!

I tuoi spettacoli, le tue scelte compositive, la tua volontà – ad esempio – di fornire al pubblico una mappa narrativa dell’opera, denunciano un grande amore e rispetto nei confronti dello storytelling. Per te che sei dramaturg residente presso un teatro nazionale, c’è sete di racconto, di dramma, di mythos, in questo nostro teatro di fine anni Dieci?
Totalmente. E spero che riusciremo in qualche modo a scrollarci di dosso la dittatura del postmoderno. Di quella convinzione d’essere ormai giunti alla fine della storia/Storia – un atteggiamento, questo, di grande presunzione! – che ci porta a dire: ormai tutto è stato raccontato; non si può più fare musica dopo Cage, né letteratura teatrale dopo Beckett; non ci resta che citare.

Propaggini di un postmodernismo che sa ormai soltanto più di manierismo sterile?
Sì, un po’ è manierista. Un po’ questa chiusura al racconto è anni Settanta. Ma erano belli gli anni Settanta, eh!

Si tratta forse di un atteggiamento d’avanguardia che aveva senso allora. Oggi non più.
Diciamo allora [ride n.d.r.] che è il postmoderno è retrò, è vintage!
Al di là di tutto, io credo – più che ad un ritorno alla storia – ad una sua sopravvivenza. Perché, nota a margine, va comunque riconosciuto che noi insistiamo a mettere in scena dei classici.

E’ quel piacere affabulatorio per il racconto, probabilmente inscritto nel dna umano?
Tanti storcono la bocca per il fatto che io racconti storie. O semplicemente mostrano del disinteresse. Perché, in qualche modo, è come se questa mia scelta mi ponesse al di fuori del presunto contemporaneo. Io non penso che l’umanità cesserà mai di avere bisogno di storie. Penso, in altre parole, che non ci siano evidenze importanti a sostegno di tale ipotesi. Il fatto che la gente legga più tweet che romanzi non dimostra nulla.

Magari servono soltanto storie un po’ più brevi…
Sì però – mentre si fa un gran parlare del fatto che la gente non vada più al cinema, che i giovani guardino su You Tube solo spezzoni di pochi minuti, che la comunicazione sia ormai tutta spostata sui social e che dei giornali non si interessi più nessuno, che la soglia di attenzione con i nuovi media sia calata vertiginosamente – ecco, mentre si dibatte di tutto ciò, la gente guarda più fiction che cinema. Tutta questa lunga serialità, che è la moda del momento, in che scaffale di Blockbuster la mettiamo? Non si tratta forse di un bisogno smodato di storie? Infinite, peraltro.

LA BALLATA DI JOHNNY E GILL
testo e regia Fausto Paravidino
ideazione Iris Fusetti e Fausto Paravidino
con Federico Brugnone, Iris Fusetti, Fatou Malsert, Daniele Natali, Tibor Ockenfels, Fausto Paravidino, Aleph Viola
scene Yves Bernard
luci Pascal Noël
video Opificio Ciclope
costumi Arielle Chanty
maschere Stefano Ciammitti
musiche Enrico Melozzi
coreografia Giovanna Velardi
aiuto regia Maria Teresa Berardelli
una produzione Le Liberté, scène nationale de Toulon, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Il Rossetti Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, La Criée – Théâtre National de Marseille, Pôle Arts de la Scène, Les Théâtres de la Ville de Luxembourg, Châteauvallon Scène Nationale
(spettacolo multilingue in italiano, inglese e francese)

durata: 3h
applausi del pubblico: 3′ 12”

Visto a Torino, Teatro Gobetti, il 9 gennaio 2019
Prima nazionale

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