“Penelope” aggiornata: nel corpo-spettacolo di Martina Badiluzzi

Penelope (ph: Guido Mencari)
Penelope (ph: Guido Mencari)

Federica Carruba Toscano è la protagonista del monologo prodotto da Oscenica  

Come quelle immagini che rivelano, sotto pattern apparentemente gratuiti, figure tridimensionali capaci di sbalzarsi dalla pagina in forme quasi concrete, così può accadere che uno spettacolo sappia separarsi dal proprio fondo, dai suoi temi e dalle sue stesse parole per offrirsi agli occhi dello spettatore come sola forma, corpo organico denso, percorso da tensioni, percepibile con un unico sguardo mosso. Non è più una cosa da seguire come una traccia, ma un organismo in cui sembra di poter riconoscere i meccanismi di una vita faticosamente raggiunta – vita artificiale, sempre soggetta all’imperfezione dell’automa, del manichino.

La figura di Penelope, faccia a faccia col suo sposo lungamente atteso, è da Martina Badiluzzi chiosata, approfondita, a volte appesantita, ma soprattutto aggiornata in un monologo per Federica Carruba Toscano, in scena al Teatro Quarticciolo dopo il debutto per Romaeuropa.
Badiluzzi è stata vincitrice del bando Registi Under30 della Biennale di Venezia 2019, ma noi non possiamo dimenticarne la performance nel memorabile “Fäk Fek Fik”, parte del progetto su Schwab di Dante Antonelli.

Il termine “aggiornata” non spaventi, non intendiamolo nel senso di una ‘attualizzata’ ma in quello di ‘ricreata al presente’, al modo in cui Luigi Malerba lo aveva fatto con la Penelope borghese di “Itaca per sempre”, e avendo come punto di partenza, non d’arrivo (troppa è la distanza in termini di cartografie psicologiche), ciò che scriveva Aldo Busi nella prefazione alla sua riscrittura del “Decameron”: “E’ l’originale, oggi”.

Una poltrona di cuoio biondo sulla sinistra, sei ventilatori a piantana al centro, verso destra, disegnano l’elegante scena.
Il testo è composito, risultato di una drammaturgia oculatamente varia nei registri e nelle intensità energetiche. Si parte da un’ipotetica prima cena insieme, dopo il ritorno dell’eroe, in un ristorante vista mare, espediente per l’emersione di aneddoti d’infanzia, in cui il materiale pseudo-mitologico rievoca, ad esempio, banchetti di fanciulle consumati del padre della regina (è Icario, dice Wikipedia, ma come non pensare ai delitti della stirpe micenea, all’antropofagia di Tieste, al sacrificio infanticida di Ifigenia e insieme alla disinvoltura con cui Polifemo schiantava i corpi degli incauti marinai?).
Intanto la sensualità della regina, anche grazie a una certa ruvida vena mascolina del marito, si deposita strato su strato, si raggruma e si fa incontenibile. La sua vita nella solitaria reggia itacese, presa d’assalto dall’afrore di una masnada di pretendenti, viene “aggiornata” in forma di rave, di tifoseria da curva.

Nonostante tutto, il mondo su cui questa Penelope veleggia rimane patriarcale, addirittura bucolico, un mondo che tra gli ammiccamenti urbani sa ancora di sterco ovino. Penelope lo affronta: quando sul piatto le servono una testa d’agnello, lei, dopo una lunga distrazione o esitazione, ne mangia la lingua, traducendo lo straniamento per questa doppia presenza in bocca in un tema sensuale, per cui decine di lingue prendono a danzarle in corpo. E, passo dopo passo, realizziamo che il vero dubbio del ritorno non è più il riconoscimento dell’identità del marito, come voleva la tradizione omerica, ma il terrore, di fronte alla propria carica erotica non più contenibile, di riconoscersi incapace dell’antico desiderio, che un tempo la accendeva, per l’uomo ritrovato. Un nuovo, non meno disperante ritrovarsi sola.

In scena c’è la sola Federica Carruba Toscano, ed è vero che, quando si tratta di un monologo, tutta la scommessa di uno spettacolo sembra giocarsi sulla prestazione di un singolo che ne incarni la voce e tutto il resto. In questo caso, a dare l’innesco per quello sbalzo dell’organismo dello spettacolo dal palco verso di noi, con cui aprivamo queste righe, è proprio la dialettica fra il testo scritto, che esibisce una tessitura svolta con un punto fitto, frequente, senza risparmio di filo, e il corpo e la voce in scena. Essi pure avrebbero il dono di una carnalità dal cospicuo peso specifico, ma fin da subito l’attrice fa la scelta di smorzare le richieste di quel testo, dove altri avrebbero potuto cavalcarlo ben più comodamente con la chiave dell’adesione abbandonata.
Non vi è dubbio che, alla lettura silenziosa, le parole di Badiluzzi guadagnerebbero piuttosto che perdere in sanguigna vividezza. Tuttavia acutamente frena, la sua interprete, perché la parola detta è un’altra cosa.

Questa era, a titolo d’esempio, la prima e più tangibile sutura sul corpo di questa “Penelope”, un disinnesco puntuale ma deliberato, che non merita di essere automaticamente derubricato a dinamica di contrasto autrice/attrice-interprete, ma che testimonia una vita contrastata interna all’organismo-spettacolo.

Se ne ha la prova quando l’attrice è costretta, per forza di cose, ad alzare la temperatura della resa, durante la scena del confronto tra la donna e i maschi Proci: il testo si fa più carnale, le luci si scaldano, la posizione è di schiena al pubblico, in equilibrio sui braccioli della poltrona, cosce divaricate, la schiena arcuata, mentre più di uno dei sei ventilatori si azionano, soffiandole tra i capelli. L’erotismo di un personaggio che altrove patisce (guadagnando) dal polso con cui l’attrice ne tiene saldamente le redini, qui risulta poco lasco, e prona l’attrice.
Persino il suono dal vivo di Samuele Cestola, che dovrebbe tirare la volata, si scolla, sia pure per minimi segmenti, dal lavoro vocale.

Insomma, in un lavoro che mostra tutti gli smottamenti di cui si è detto, l’evidenza fisica dell’oggetto-spettacolo è dovuta proprio al movimento, anche scomposto, che questi creano. Al di là di un discorso di mera “riuscita” di un’operazione teatrale, è qualcosa che regala la possibilità di una lettura, di un’esperienza in cimento, di un’avventura da spettatore.

PENELOPE
regia e drammaturgia Martina Badiluzzi
con Federica Carruba Toscano
progetto sonoro Samuele Cestola
disegno luci e scene Fabrizio Cicero
costumi Rossana Gea Cavallo
consulenza artistica Giorgia Buttarazzi
aiuto regia Arianna Pozzoli
curatore del progetto Corrado Russo
produttore generale Pietro Monteverdi
una produzione Oscenica
in coproduzione con Romaeuropa Festival, Primavera dei Teatri, Scena Verticale, Pergine Festival
con il supporto di La Corte Ospitale, Teatro Biblioteca Quarticciolo, Carrozzerie n.o.t.

durata 60′
applausi del pubblico: 2′

Visto a Roma, Teatro Biblioteca Quarticciolo, il 30 aprile 2023

 

 

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