Di Peter Brook si è parlato e si è detto di tutto: considerato una delle figure di spicco del nostro Novecento teatrale, la sua attività di regista teatrale e (seppur meno fortunata) cinematografica ha attirato le attenzioni di studiosi di tutto il mondo. Quello che si conosce poco, però, è l’attività fotografica di Brook, ultima passione artistica di un vivacissimo ottantaseienne, in grado di cimentarsi ancora con tutte le sue forze nello sviluppare le sue passioni. E così, nel 2009, presso la galleria Pièce Unique di Parigi, l’artista inglese ha esposto il risultato del suo lavoro fotografico degli ultimi anni all’esigente pubblico parigino, ottenendo un buon successo di pubblico e di critica.
Adesso questa mostra è sbarcata in Italia, a Cava de’ Tirreni (SA), dove fino al 18 settembre è in esposizione presso il nuovissimo spazio del Marte (acronimo di Mediateca ARTe Eventi), un complesso molto interessante disposto su quattro livelli in un ex convento seicentesco, che nel suo interno si ispira alle architetture moderne delle gallerie berlinesi e che ospita sale cinematografiche, sale per formazioni, eventi e appunto gallerie per esposizioni.
Ad inaugurare lo spazio è stata proprio la mostra del maestro inglese, corredata da un interessante catalogo con scritti di Alfonso Amendola, Lorenzo Mango e Georges Banu. L’idea alla base dell’esposizione “Face to Face”, opera di Brook con l’aiuto della sua fidata collaboratrice Marie Helene Estienne, è appunto quella dei volti: non però fotografie di volti “reali”, ma di idee di volti, date dagli oggetti più strani: frutta, mozziconi di sigarette, foglie, cappelli, matite e quant’altro possa servire per creare un volto.
La prima cosa che salta subito all’occhio è la capacità di Brook di far perdere il significato originale dell’oggetto utilizzato, trasformandolo in “altro”, in questo caso un volto, che assume un po’ il sapore del gioco, come quando da bambini, utilizzando quello che avevamo sotto mano, creavamo mondi “altri” rispetto alla realtà. E l’infantilismo è sicuramente una chiave di volta nel comprendere il significato di questa mostra: i “volti” infatti, diventano reali solo ci immedesimiamo nei panni dei bambini, per cui un oggetto è vero grazie all’immaginazione.
Indubbiamente vi sono innumerevoli influenze dal punto di vista artistico, soprattutto nei confronti dell’arte contemporanea: pur essendo in sé delle fotografie, si avvicinano più ai canoni dell’arte contemporanea, e a riprova di ciò vi è il fatto che per Brook la qualità tecnica non è importante. Le foto sono infatti scattate tutte con un iPhone, che non è di certo performante dal punto di vista fotografico. Quello che conta però è l’idea, e lo stesso maestro inglese sostiene che chiunque può fare delle opere d’arte, poiché ciò che conta non sono i mezzi con cui realizzarla, ma le idee da avere.
Nelle opere esposte sono evidenti le lezioni del cubismo e del costruttivismo, cui queste facce si relazionano. In particolare, si vedono nelle opere esposte tratti in comune con le opere di El Litsisky e con le rayographie di Man Ray.
Da notare poi come le opere, pur essendo fotografate bidimensionalmente, in realtà si mostrano con una forza tale da caricarle di tridimensionalità, anche qui imparando dalla lezione cubista.
L’eccessiva declinazione del tema alla fine stanca forse un po’, anche per la presenza di oltre cento opere che utilizzano sì oggetti diversi, ma esprimendo sempre lo stesso concetto. Tuttavia un’occasione per conoscere anche altri aspetti del Peter Brook artista.