«È una cosa che ci nascondiamo a vicenda, per mutuo accordo? Oppure condividiamo lo stesso segreto senza saperlo? Portiamo la stessa maschera. E se la morte non fosse altro che suono? Rumore elettrico. Lo si sente sempre. Suono ovunque. Che cosa tremenda! Uniforme, bianco. A volte mi invade – disse lei – A volte mi si insinua nella mente, a poco a poco. Io cerco di parlarle: Non adesso, morte».
Nel 1985 lo scrittore statunitense Don Delillo metaforizzava la paranoia della mortalità attraverso la brillante metafora di una nube tossica che incombe su una borghese cittadina del Midwest americano, paralizzandola nell’ossessione.
Normalmente ogni riflessione sul Tempo ci riporta alla nostra propria finitudine. Ma non è questo il caso della performance “Echo of an End” di Li Kemme, allieva dell’Università Statale di Musica e Arti Sceniche di Stoccarda, ospite quest’anno a Incanti nell’ambito del Progetto Accademia, giunto alla sua IV edizione. La giovane artista spinge il suo sguardo oltre la breve durata dell’uomo sino al tempo grande dell’universo, quel flusso eterno – o sarebbe meglio dire, frequenza d’onda – che ci ignora e sopravanza.
Sul piccolo palco non rialzato, attorno al quale il pubblico è invitato a sedersi come ai margini di un ring, una decina di apparecchiature tecnologiche – curiosi aggregati composti da materiali di recupero da cantina o discarica – vengono lentamente accese con un effetto di graduale propagazione, sovrapposizione e infine saturazione uditiva dello spettatore, che è costretto a focalizzare le proprie percezioni nel tentativo di individuare la fonte da cui proviene il singolo stimolo sonoro.
In questa sinfonia di sapore analogico si distingue a fatica una voce registrata, sempre più meditabonda, remota e sopraffatta dal crescendo di rumori, intenta a sviscerare il simbolismo dei bizzarri congegni presenti in scena: un paio di robottini camminano autonomamente sul pavimento; un mappamondo viene accostato a una candela che progressivamente brucia e finisce per far scoppiare un palloncino pieno d’acqua addosso alla platea, a suggerire la minaccia del riscaldamento globale e dell’innalzamento del livello dei mari; da un alto imbuto piove sabbia sulla testa di un’anziana marionetta a rappresentare lo stillicidio inesorabile degli istanti; un mangianastri emette il suono del Big Bang primordiale, mentre una scodella gira instancabile insieme all’uovo posto al suo interno, a replicare il parallelo moto di rotazione e rivoluzione terrestre; infine una fisarmonica, issata a una sgangherata ruota di bicicletta appartenuta al nonno, ricorda alla protagonista il suo passato.
Quello a cui si assiste è la ricreazione, filosoficamente ambiziosa, di un vero e proprio microcosmo che contiene l’Io, il pianeta Terra, il Cosmo, e ne rivela – più che l’entanglement quantistico ovvero le interconnessioni – il sincronico, caotico e reciprocamente sordo accadere. L’unico legame fra queste molteplici, indifferenti co-esistenze è l’interferenza acustica.
Di tanto in tanto l’attrice, spesso ribaltata a testa in giù in verticale, si rivolge al pubblico come se parlasse fra sé e sé: l’obiettivo non è tanto farsi ascoltare, quanto lasciare che la propria voce venga sovrastata dallo strepitio della realtà circostante, completamente assorbita nel variegato paesaggio sonoro che avvince e stordisce lo spettatore.
Quella di Li Kemme è una potente riflessione sulla simultaneità degli eventi, sulla sincronica concomitanza di tutti quei fenomeni che sollecitano i nostri sensi e disseminano la nostra attenzione, già oberata dal proprio ininterrotto brusio interiore, da quel masturbatorio soliloquio mentale che non è altro che la pigra risacca dei nostri pensieri impegnati a interrogarsi sul nostro statuto di esseri – o macchine? – senzienti. Lo scopo della performance affiora quando le strumentazioni vengono spente, una alla volta: scoprire se è possibile isolare il suono del Tempo al di sotto della magmatica superficie del quotidiano, il Rumore Bianco della nostra stessa morte all’opera.
Quello di Li Kemme è il primo di quattro lavori presentati dagli studenti della Scuola di Stoccarda invitati in questa edizione di Incanti, ed è forse il più cerebrale, teorico e, paradossalmente, didascalico nell’illustrare le proprie tematiche. Gli altri spettacoli appaiono decisamente più ermetici ma ugualmente sperimentali nonostante l’essenzialità della messinscena.
Come già in “Echo of an End”, nel “Sans Titre” di Coiline Ledoux si ragiona sulla linea di confine tra mondo e soggetto, e sul bisogno di quiete di quest’ultimo, alla costante ricerca di uno spazio appartato, privato, in cui ritirarsi e ritrovarsi.
Impilando uno sull’altro dei semplici rocchetti di lana illuminati da una minuscola lampadina interna, e con l’ausilio di suoni che riproducono il traffico urbano, Coiline Ledoux innalza i grattacieli di una piccola metropoli in cui si aggira con aria smarrita un omino di lana e uncinetto, animato dalle dita della stessa artista. Ma è sufficiente tracciare con un gesso bianco un cerchio magico nel centro del tavolino per dar vita a un eremo del silenzio nel quale ogni fragore cessa.
Rinuncia alla parola anche lo spettacolo successivo, “Für Dich Reiss’ich Die Schönsten Blumen Raus” di e con Britta Tränkler ed Anne-Sophie Dautz, titolo che potrebbe tradursi come «Io strappo per voi i fiori più belli».
Le due performer dall’aspetto androgino, e dallo sguardo sempre provocatoriamente fisso sulla platea, raccontano un amore controcorrente cui fanno da ovvio correlativo azioni controintuitive, come sciogliere un gelato color puffo con l’asciugacapelli o estrarre una piantina da un vaso e inserirsela con tanto di terriccio nelle mutande. Le attrici sono quasi sempre disposte su piani diversi della scena, distanti, e interagiscono poco fra loro in una performance che appare statica, quasi algida nella sua impossibilità di contatto fra i corpi, eppure carnale e impudica nel solitario e lascivo sporcarsi delle due donne, amanti senza volto che suggellano la loro stessa impenetrabilità con un magrittiano bacio velato.
A concludere la rassegna germanica è infine Noémie Beauvallet con il suo “Versus”, termine che in latino racchiudeva un ampio spettro di significati: “contro”, “in direzione di”, ma anche “movimento circolare”, “gesto”, e ancora, qualcosa o qualcuno di “trasformato”, “rovesciato”. Queste ed altre sono le sfumature semantiche che si intravedono sulla scena nello sdoppiamento e nella dialettica di specularità e manipolazione che coinvolgono l’interprete e il manichino che gli fa da alter ego.
Le quattro proposte del Progetto Accademia, esemplari manifestazioni dell’ottimo stato di salute di cui gode il teatro di figura internazionale, fungono da perfetta cornice alla portata principale della serata, “La pelle du large, «Il richiamo del mare», esilarante adattamento dell’Odissea diretto dalla compagnia francese Philippe Genty.
Mantenendo intatta la propria cifra stilistica, un’inconfondibile qualità onirica e antinaturalistica, e ritornando su uno dei suoi topoi prediletti, quello del viaggio, Genty si cimenta insieme a Mary Underwood e a un trio di abili attori, con l’epica; e lo fa attraverso il teatro degli oggetti, allestendo il più celebre dei nostoi del mito: le perigliose divagazioni di Ulisse nella sua recalcitrante rotta verso Itaca. Un Ulisse mutato – dalla pareidolia antropomorfizzante del nostro subcosciente – prima in cavatappi e poi in saponetta, e come questa inafferrabile, sempre in fuga dalla presa dell’intelletto e anche da quella dell’infelice consorte Penelope, ghiacciolo conteso da un esercito di stoviglie, i Proci.
Il successo dell’affabulazione è tutto nella povertà stilizzata dei mezzi e nella capacità animista di un’immaginazione che si fa demiurgo e infonde vita agli oggetti: basta assemblare una paletta, un manico di scopa e un ventaglio di carta per ottenere una nave popolata di orgogliosi cioccolatini, impavidi marinai che solcano le onde insidiose di una tenda da doccia, fronteggiando sirene e maghe ammalianti, Lotofagi e ciclopi.
Il comune utensile si emancipa dunque dalla funzione cui era destinato per nascita, e da mero strumento asservito all’uso diviene fatto teatrante, icona animata e performatica, sempre disponibile a farsi (in)vestire dai nuovi e sgargianti abiti narrativi che la fantasia confeziona per lui.
La trasfigurazione attuata da Genty decontestualizza il manufatto ordinario mediante un processo di straniamento che arricchisce di senso il piatto orizzonte del quotidiano e permette allo spettatore di riscoprire quel piacere dell’oralità, in cui d’altronde affondano le radici aediche del poema omerico. L’aspetto più originale dell’opera di Genty è infatti il protagonismo ludico della “parola parlata”, il mulinello linguistico che gioca sull’inarrestabile slittamento dei significanti, su quegli scarti tra grafia e pronuncia che solo una discreta padronanza del francese consente di cogliere appieno. La comunicazione fra gli inorganici personaggi incappa spesso in equivoci verbali che generano una spassosa incomprensione reciproca, un espediente particolarmente azzeccato se si pensa che l’intera Odissea ruota attorno all’incontro con popoli e culture esotiche, e all’immagine meravigliosa ma spesso etnocentricamente deformata che ci costruiamo dello straniero.
Due opere distanti fra loro per forma e intenzioni, ma entrambe efficaci nel lasciare il pubblico interdetto e ammirato, prendono il posto dell’universo degli oggetti per porre in primo piano la figura umana, rappresentata nei grotteschi burattini del primo, corale spettacolo, e poi nel commovente vecchio a grandezza naturale del secondo.
“Babylon” è l’ultima fatica dell’australiano Neville Tranter, maestro della puppet art. Solo in scena, Tranter manovra e guida la sua inanimata compagnia teatrale dentro un racconto ritmato e complesso, dove il dramma delle migrazioni viene avvolto dalle brume bizzarre di una morality play postmoderna: «…Un poema sacro cui non sono mancati né il cielo né la terra a por mano», così Cesare Pavese presentava «Moby Dick» di Melville. Una definizione che potrebbe ben applicarsi anche a “Babylon”, fatte le dovute proporzioni e correzioni.
Sulla terra – in un punto imprecisato della costa nordafricana – un irascibile lupo di mare si prepara a trasportare un composito gruppo di rifugiati; la destinazione è Babylon, chimerica meta d’oltremare e simbolo delle speranze inquiete del migrante d’ogni tempo. In cielo – o meglio, in varie regioni ultraterrene – un Dio e un Diavolo curvi e incartapecoriti si interessano, con opposti fini, alla sorte di Gesù, deciso anche lui a imbarcarsi nel viaggio, in cerca di un secondo Avvento per la salvezza dell’umanità.
La barca colerà a picco, ma il figlio di Dio scamperà alla morte, in un ambiguo lieto fine. Questa la vicenda, nei suoi tratti essenziali. In una tragicomica e artigianale danza macabra, subito si manifestano le doti di trasformismo vocale di Tranter, magistrale nei duelli verbali dei personaggi che si alternano in scena. Dal timbro nervoso del capitano alla voce flebile di una vecchia profuga, dalle frasi faticose di Dio ai commenti melliflui del suo angelo consigliere, il burattinaio governa con maestria toni e mosse di ogni figura, e quasi non ci accorgiamo della sua robusta presenza sul palco, o dell’evidente moto delle sue labbra al fianco dei burattini.
Tra i pregi dello spettacolo c’è senza dubbio la riuscita sublimazione fiabesca dell’attualità, senza celare le inquietudini e le ferite della Storia. Valga per tutti l’esempio del personaggio del capitano: quello che è in fondo un cinico scafista viene qui reinventato come un ambiguo carattere dickensiano, avido, violento ma pittoresco e accattivante, non senza un’ombra di sentimento.
Più in generale, Tranter riesce ad affrontare un tema urgente con gli esclusivi mezzi della sua arte e una sicura mano narrativa. Quando tutti i burattini vengono schierati sul palco a ricevere gli applausi, resta al pubblico il ricordo plastico di un racconto vicino eppure antico. Al teatro Massimo di Cagliari il 20 ottobre.
Da una storia affollata e chiassosa passiamo alla presenza muta e solitaria di un uomo al tramonto.
“Soleil couchant” dell’artista belga Alain Moreau (Tof Théâtre) si svolge in uno scenario spoglio che evoca “Happy Days” di Beckett: su una spiaggia si aggira un vecchio calvo, dall’espressione incerta e stupita; un grosso burattino che sembra un uomo in carne e ossa, tenuto in vita dallo stesso Moreau, allacciato al personaggio, cui «presta» le proprie gambe e la mano sinistra.
Curiosamente il volto pallido e cascante del vecchio ci ricorda l’ispettore Derrick. Ma l’anonimo anziano che qui vediamo non ha inchieste o altri impegni da affrontare. Con gesti lenti, non sicuri, pianta intorno a sé dei bastoncini, sulla cui sommità lega strisce sottili di un vestito femminile. Poi vaga senza scopo sulla sabbia, curvo e impacciato, alternando momenti di stasi ad azioni banali e delicate. Tutto avviene in un totale silenzio, accompagnato dal distante sciabordio del mare. È una rappresentazione che corre il rischio del tedio, ma la perplessa attesa dello spettatore viene sconfitta dall’atmosfera nostalgica e dalla calibratissima dialettica tra artista e burattino.
Moreau segue con lo sguardo e con il corpo ogni mossa del suo personaggio, ne commenta mimicamente i gesti, lo aiuta, la sua mano è quella del vecchio. Nel prodigio della sospensione dell’incredulità, sintomo dell’arte, non ci accorgiamo più della presenza di un uomo e di un pupazzo senza vita, ma vediamo una bizzarra e poetica bestia a due teste, con i pantaloni grigi di un pensionato. La luce sulla scena, già crepuscolare, diminuisce sempre più, e con essa sembra spegnersi il vecchio, ormai preda di ricordi e di assenze. Alla conclusione dello spettacolo, Alain Moreau slaccia e libera il suo burattino, abbandonandolo dentro una duna di sabbia. Quando i riflettori si riaccendono per gli applausi, del vecchio non ci sarà più traccia.