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Piccola patria di CapoTrave: un triangolo chiaro, forse troppo

Piccola Patria

Piccola Patria

Lucia Franchi e Luca Ricci firmano lo spettacolo che è passato da poco per il Teatro Quarticciolo di Roma

La repubblica di Cospaia nacque tra Umbria e Toscana nel 1441 da un errore nel tracciamento di un confine tra Stato della Chiesa e Repubblica di Firenze, ma di fatto dalla ragion di Stato, che consigliò a entrambi i paesi di non fare un casus belli di una striscia di terra di pochi ettari priva di valore. Ciò che ne risultò fu uno stato anarchico ma semplice, durato quasi quattrocento anni senza un governo formalmente costituito, senza esercito e carceri.

A questa vicenda si ispira, trasportandola nella contemporaneità, “Piccola Patria” (2019) di Lucia Franchi e Luca Ricci (CapoTrave), in scena per la seconda volta a Roma: dopo l’Argot (2020) ora al Quarticciolo nel rovente weekend del 4 e 5 giugno scorsi.
Il pubblico è sul palco ad attorniare il lungo tavolone da seggio elettorale, sotto i riflettori, a pochi centimetri dagli attori – un gran caldo, che riga di sudore (innanzitutto) i tre volti in scena. Un tavolone che ricorda il poetico super-camerino di Deflorian/Tagliarini (“Sovrimpressioni”) è il ring in cui i tre personaggi si scontrano, quasi senza toccarsi, manovrando, nella prima delle tre scene, le schede elettorali, preparandole per l’ingresso dei votanti, poi un pranzo al sacco, panini con la porchetta e bottiglia di vino, infine l’urna piena dei risultati. Ma sono solo pretesti, il tavolone è qualcosa di enorme che sta in mezzo a loro tre, un gigantesco rimosso/irremovibile attorno a cui ci si evita e sotto il quale, occasionalmente, ci si rifugia.

Il primo personaggio è Corrado (Simone Faloppa), promotore di un referendum per riportare all’indipendenza la repubblica, che qui si chiama San Verdiano, che basa le sue ragioni su una generica diffidenza verso l’altro, lo straniero, evidenziando il primo dei tre temi affrontati: apertura contro chiusura. C’è poi Caterina, sua sorella (Gioia Salvatori), fuggita da San Verdiano dieci anni prima in seguito a un incendio che ha reso impossibile lo svolgimento di un primo referendum, durante il quale è rimasto ucciso un ragazzo – secondo tema, la fuga. Completa il terzetto Lorenzo (Gabriele Paolocà), ex compagno di lei ed ex violento, rivale in politica di Corrado da cui è stato, dopo l’incendio, costantemente ostacolato nella realizzazione professionale e personale – terzo tema, il passato dei singoli che nella ristretta realtà del borgo più che altrove è difficile da licenziare.

Tre caratteri ben sbozzati ma non originali: Corrado è il chiuso politicante di destra, campanilista e ostinatamente impermeabile alle ragioni dell’altro, che ha costruito la sua rete nel piccolo spazio di un comune di provincia e che spera con un cavillo di fare il salto di livello; Caterina è la fuggitiva, che trova nel volontariato in un paese povero la reazione a un clima provinciale, una che va via ma non va via mai realmente, mai fino in fondo; Lorenzo l’idealista puro e per questo inacidito dal prevedibile contatto con la vita vera, incapace per ostinazione e forse per mediocrità di tagliare il cordone ombelicale con la sua terra d’origine, capelli lunghi, eskimo.

Il testo cuoce al proprio fuoco tematiche non nuove, con modalità di costruzione rassicuranti: si dipana nella progressiva emersione dei rapporti tra i tre, che giunge al presente e si proietta appena poco dopo di esso, in un avvenire bloccato nella sconfitta dei puri. Più assonante risulta tale meccanismo alle corde di Paolocà, leggermente meno a quelle più caratterizzanti di Faloppa, che a tratti rischia il bozzetto, e ancor meno a quelle ironiche ma ampie di vibrazioni – anche puramente sonore – di Salvatori, che sembra spesso costretta, stretta in una gabbia che non merita, quella di un personaggio non alla sua altezza – ma che è però, paradossalmente, quella che più cattura, in scena, la tensione dello spettatore che ricerchi qualcosa di più della mera illustrazione. La costruzione, si diceva: non risparmia meccanismi attesi, come l’improvvisa deviazione da un discorso, il far piazza pulita, letterario forse, ma comodo («Sei scappata!» grida Lorenzo, Caterina: «Una volta ho visto un coccodrillo»), l’evidente trascolorare da una a un’altra situazione interiore, come il troppo evidente ritrovarsi, per un momento, nel ricordo del perduto amore tra i due, l’annodarsi in un groppo della trama tale da bloccarsi in un impasse che lascia fatalmente tutto com’era.

A questo appoggiarsi a meccanismi noti non si sottrae, come naturale conseguenza, la regia: la più compiuta dimostrazione si trova nella performance di Paolocà, che si adagia in energiche sfuriate da attor giovine, in faticosi ma confortevoli parossismi sentimentali autoassolutori, che non mancano di certificare la propria genuinità con la lacrima vera. Resta la dimensione puramente sonora, il grido, il pugno sul tavolo che spaventa il pubblico (risposta organica, non per questo meno viva), il balzo sul tavolone, la scena finale insistita e straziante, forse la migliore proprio per questo suo carattere del tutto fisico, che sfonda la barriera della facce e delle parole, con l’urna elettorale frantumata a furia di colpi.

Anzi, no, parrebbe una provocazione, ma in un testo che vuol essere tutto fuori senza un angolo d’ombra, privo di sottintesi veri, di quelli che si annidano, in un testo in cui ciascuno esprime fino in fondo ciò che fino in fondo vuol esprimere ed allude a ciò a cui vuole alludere, sono i cambi di scena i momenti più riusciti, in cui i tre attori, sotto le mezzeluci, si muovono attorno al tavolo, si scambiano gli oggetti di scena per preparare lo spazio a ciò che accadrà, e sguardi, in una condizione ambigua, che scinde la natura dei rapporti e del vissuto, come se si svolgesse in un universo di non-dicibile e non-pienamente-esistente.

PICCOLA PATRIA
ideazione e drammaturgia Lucia Franchi e Luca Ricci
con Simone Faloppa, Gabriele Paolocà, Gioia Salvatori
e con la partecipazione in video di Alessandro Marini
scene e costumi Alessandra Muschella
disegno luci Pierfrancesco Pisani
regia Luca Ricci
produzione CapoTrave – Infinito
con il sostegno di Comune di Sansepolcro, Regione Toscana, Mibac
residenze creative Teatro dell’Orologio (Roma), Teatro alla Misericordia di Sansepolcro (Ar)

applausi del pubblico: 1′ 30”

Visto a Roma, Teatro Quarticciolo, il 4 giugno 2022

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