Piergiorgio Giacchè: per una de-formazione dello spettatore

Il Centro della Visione
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Piergiorgio Giacché
Piergiorgio Giacché (photo: altrevelocita.it)
Docente di Antropologia del teatro e dello spettacolo all’Università di Perugia, abbiamo raggiunto Piergiorgio Giacchè nei giorni scorsi per parlare del progetto Centro della visione, ideato da CapoTrave/Kilowatt e Laboratori Permanenti, progetto di cui lui è direttore scientifico, e che ha visto nel week-end appena trascorso il suo secondo incontro: protagonisti il regista e attore Mario Perrotta e la critica teatrale Claudia Cannella
Prossimo appuntamento: da venerdi 2 a domenica 4 maggio con lo sceneggiatore Stefano Rulli.

Il progetto ha come tema la formazione dello spettatore. Un percorso di formazione che aiuti i partecipanti a mettersi di fronte a un prodotto artistico e a compiere lo sforzo necessario ad andare verso l’opera. Imparare ad ascoltare, imparare a guardare. L’intervista a Giacché è stata anche l’occasione per parlare del ruolo attuale della critica e del dibattito che ruota attorno agli spazi occupati, di cui il Teatro Valle viene ad essere il caso emblematico.

Cominciamo parlando del Centro della Visione, ideato e organizzato assieme all’associazione Laboratori Permanenti, con la sua direzione scientifica.
Il Centro della Visione è un’idea di Luca Ricci e Caterina Casini che si sviluppa in un triennio attraverso una serie di appuntamenti-esperienze-riflessioni dedicate allo “sguardo” e privilegiando il “teatro”.
Anticipo che io detesto i corsi di formazione: qui non si tratta di un ciclo di lezioni per diventare qualcosa – lo spettatore – che del resto già siamo; si tratta invece di cogliere delle occasioni di allenamento e approfondimento della fruizione, per recuperare un’attività del sentire e dell’osservare.
Siamo talmente bombardati dalle immagini da non essere più in grado di avere visioni: ma la stessa nostra capacità di vedere è a rischio. Diciamo che sostanzialmente – da tutte le immagini che ci assediano – siamo visti. Siamo abituati ad essere consumatori, riceventi piuttosto che ricettivi, e questa sorta di “passività” ci impedisce una reale sensibilità riflessiva davanti alle tante proposte spettacolari.
Il Centro è in realtà un corso di “deformazione”. Si dovrebbe dimenticare il modo in cui siamo allenati a sentirci spettatori e ricominciare un percorso aiutati da occasioni, persone e situazioni che possano farci ripetere e magari rinnovare questo percorso.

Come è articolato il progetto?

Si sviluppa in una triennalità che ho pensato di orientare e sottotitolare diversamente: un primo anno sul tema “A prima vista”; un secondo “A guardar bene” e infine “Un ultimo sguardo”: una specie di alba, mezzogiorno e tramonto dello sguardo.
Ci confrontiamo non solo col teatro, ma ad esempio anche con l’arte e il paesaggio, con avventure ed esperienze di visionarietà e di sensorialità che possano farci recuperare delle capacità effettive o addirittura restaurare delle capacità infantili che avevamo.
Abbiamo cominciato con una inaugurazione a dicembre intitolata “Il Natale dello sguardo” nella quale abbiamo messo al centro appunto il Centro della Visione di Sansepolcro: a “santo sepolcro” infatti c’è il dipinto di Piero della Francesca sulla “Resurrezione”, che è anche il primo caso di un’opera d’arte poi ripresa nello stendardo del Comune, diventata quindi un riferimento dell’identità per tutta quella comunità. Tutti gli abitanti lo guardano, ci passano davanti, ma forse pochi hanno riflettuto sulla potenza di quel tema: di come cioè il “centro della visione” di quel luogo sia “la resurrezione”, il fondamento non solo della fede ma anche della cultura cristiana per secoli e secoli.
Abbiamo commissionato una “lectio magistralis” a Giancarlo Gaeta e poi, a partire da qual centro, abbiamo cominciato a disegnare un progetto, con incontri e confronti con gli spettacoli del progetto Teatri del Tempo Presente. Si è poi deciso che ciascun spettatore interessato a proseguire avrebbe svolto, nelle vacanze di Natale, il tema sul “Natale del proprio sguardo”, ovvero ricordare e riflettere sulla loro “prima incantazione”, sulla occasione e visione che più lo ha fatto “nascere” come spettatore. Poteva trattarsi di una qualunque diversa occasione e motivazione: ciascuno di noi nasce, a suo modo e nel suo mondo, alla possibilità e al gusto della visione (con un libro, un racconto, un incontro e non solo con uno spettacolo).

Tornando allo spettatore e al recupero della dimensione dell’infanzia e dello stupore, mi viene in mente Cristina Campo, che sosteneva che i bambini posseggono organi misteriosi di presagio e corrispondenza destinati nel tempo a perdersi…
Il fatto di riscoprire questa dimensione “infantile” è un leitmotiv, penso a Grotowski ad esempio. Diciamo che il momento in cui uno si incanta di fronte a uno spettacolo automaticamente riporta in vita qualcosa di primario, di ingenuo, di prima scoperta o forse di “prima sorpresa”.
Il problema però non è tanto quello di conservare in noi il bambino, ma di riconoscerlo sempre presente come potenzialità e come desiderio sensoriale. Noi oggi non abbiamo più il “tempo” di contemplare e meditare o di lasciarci affascinare, ma forse non abbiamo perso il “modo”. Tornare alla lettera all’infanzia – a quella parte di noi in-fante, senza parola – può aiutarci a ricreare quella sospensione e quello stupore “bambino” che prima ancora di essere un effetto è la causa, la sorgente dello sguardo.

Come vede l’evoluzione dello spettatore nel corso degli ultimi anni?
La risposta non è semplice, anche perché quando si parla di spettatore tutti parlano di pubblico. Il pubblico è qualcosa che oramai è diventato tutto e niente, dentro il quale il singolo si perde e si annulla, potrei dire si acceca. Quando guardiamo la tv ci accechiamo, e solo il teatro forse raduna, tormentandolo, un pubblico come “corpo collettivo”, persino a colpi di noia e di difficoltà e spesso di mancanza di fascino… E’ strano come funzionino forse più gli insuccessi che i successi…
Il pubblico è comunque un obiettivo collettivo importante e sarebbe fondamentale recuperarlo su un piano sociale, ma non darlo per scontato come fosse una quantità e di conseguenza svuotato di qualità.
Col nostro progetto noi puntiamo sullo spettatore – certo come parte di un pubblico, ma a ciascuno la sua parte – perché poi è compito di ciascuno a suo modo fare un percorso di deformazione, di autocritica e poi di autoeducazione. Non è un’arte ma un lavoro; lo spettatore dovrebbe elaborare; l’apertura, l’attesa, la curiosità e l’impegno non sono doveri ma dovrebbero apparire e crescere spontaneamente. Non si tratta di diventare creativi, una parola tentatrice ma pericolosa e compiacente. Bisognerebbe invece immergersi e respirare mentalmente e sensorialmente, come quando ci capita di leggere un bel libro – sempre che ci piaccia e sappiamo leggere. Magari i libri, e talvolta anche le musiche, le pitture…, hanno un inizio difficile, bisogna aspettare e continuare, superare gli ostacoli e le distrazioni, fin quando il libro ci prende – o forse è meglio dire, noi lo prendiamo.
A volte, se veramente ci piace, lo centelliniamo, abbiamo paura che finisca troppo presto: ecco non sarà questo un modello ma è un esempio di quello che si potrebbe fare o dovrebbe accadere anche con lo spettacolo.

Cos’è cambiato oggi?
Lo spettatore, in senso vitale e curioso e infine attivo, è attualmente praticamente morto. Il consumatore che l’ha sostituito non è detto che lo abbia assorbito: spesso lo ha rigettato come una forma arcaica e infine poco adatta al tempo e al mondo presente.
Le forme spettacolari mediatizzate, o se si vuole il linguaggio e il dispositivo della pubblicità, è avvolgente, prepotente e infine autosufficiente. Non si tratta più di immergersi, ma di ritrovarsi felicemente affogati in stili e modi spettacolari che sono più forti di noi, e però vanno avanti anche senza di noi. La “relazione” ecco quello che va ristabilito: persino una relazione di dipendenza, di passività, di seduzione. ma infine sempre una relazione in cui lo spettatore sente di essere un polo e un ruolo.

La critica attuale aiuta lo spettatore?
Io credo che la critica, nel senso pieno del termine, svolga un esercizio fondamentale e credo però anche  che l’atto critico – quello che viene prima e che conta di più – è quello che l’artista fa in scena. Poi invece c’è la critica, ovvero i critici teatrali professionali o dilettanti, che seguono gli spettacoli… La critica come orientamento del lavoro culturale e artistico è più importante di tutte le recensioni critiche che accompagnano e commentano le produzioni. Anche perché la critica riguarda il processo creativo prima e più del prodotto spettacolare. L’arte deve ritrovare il suo ruolo di “sorgente critica” della cultura; così, a sua volta, la cultura dovrebbe criticare la politica, la politica dovrebbe criticare l’economia eccetera, ritrovando una circolazione e una contraddizione che abbia senso, anzi che cerchi Il Senso, magari disobbedendo alla funzione.

Non le sembra che talvolta anche la critica rischi di diventare un elemento inglobato nel sistema-spettacolo, perdendo di vista la sua funzione?
Da una parte c’è un notevole incremento on-line, ma anche una grande dispersione e poca chiarezza: non si sa se tutti i giovani critici impegnati in teatro vogliano farsi vedere invece che andare a vedere. Molti commenti restano sul piano del narcisismo da tesi di laurea, però è importante che tessano e moltiplichino le attenzioni e le relazioni con gli artisti. A patto che non servano solo a far loro pubblicità e cercare con loro una complicità… che appunto non aiuta la critica.
C’è anche da dire che la critica ufficiale non esiste più, sono rimasti in due o tre a recensire spettacoli sui giornali; e dopo la morte di Franco Quadri e Giuseppe Bartolucci non si tratta più di persone autenticamente coinvolte nella ricerca o tese verso lo sviluppo dell’arte scenica. Non che i giornalisti poi servano a gran che: la gente non va a teatro perché ha letto una recensione e nemmeno guarda lo spettacolo sulla base di quello che ha scritto un critico. Salvo magari i frammenti elogiativi riportati nei programmi di sala… Dall’altra, credo che la fioritura della giovane critica possa superare questa fase di estensione e di superficialità – alla Facebook – e cominciare presto ad essere più profonda. Non si tratta di essere simpatici ma nemmeno polemici, si tratta di cominciare ad aggiungere riflessioni critiche all’atto critico dell’artista, portando avanti in sede di discussione sia la domanda che l’offerta d’arte.

Il Centro della Visione, per un’accademia dello spettatore, secondo modulo
Il secondo mudulo del Centro della Visione, per un’accademia dello spettatore
E questo si ricollega anche al Centro della visione…
Non credo che esistano metodologie ma solo sperimentazioni che però vanno verificate e non ritenute valide solo perché ci sono: per quanto riguarda il Centro della visione, credo che i vari jncontri – sommati gli uni agli altri – possano dare alle persone che lo frequentano un percorso di ricerca tutta interna alla fruizione, alimentato ma anche spiazzato dai contributi di quelli che il teatro (ma anche il cinema, la letteratura, le arti plastiche…) lo fanno. Non si tratta – da parte degli artisti o degli esperti invitati – di dare informazioni o di creare competenze. Nel nostro caso l’esercizio della critica in senso lato ma profondo è davvero l’obiettivo di tutti e di ciascuno.

A proposito di spettatori e pubblico, cosa pensa dei tanti spazi occupati di cui il Teatro Valle di Roma è un po’ il simbolo?
E’ un fenomeno teatrale importante, ma secondo me sottolinea troppo il rapporto con il sociale, come si dovesse difendere più il fatto “politico” dell’occupazione che lo scopo artistico. Mi pare che sottolineino troppo il rapporto con un pubblico che, prima ancora di essere teatrale, è appunto tutta la cittadinanza.
Io ritengo comunque sia importante che i teatri – magari tutti i teatri – siano “abitati” dai teatranti, che siano occupati o meno non importa. Non sedi di spettacolo pubblico ma residenze vere (e non quelle volanti) di gente che il teatro lo fa e lo vive.
Siamo pieni di teatri monumenti, talvolta deserti, a disposizione dei Comuni e infine di proprietà degli assessori, dove gli artisti passano e talvolta risiedono ma come “per concessione”. Contro tutto questo il Teatro Valle ha avuto una primogenitura, oltre che un peso.
Quello che invece mi convince poco è che forse, della contrapposizione fra diritto degli artisti e potere pubblico, quelli del Valle non siano tanto coscienti: preferiscono vantarsi della funzione sociale forse più che della ricerca artistica. Ma staremo a vedere. Saranno gli spettacoli e la novità del loro modo di produrre e di sperimentare ciò che dimostrerà la validità della loro “occupazione” in tutti i sensi. E il primo significato non è l’occupazione dell’edificio, ma l’occupazione come libertà e autonomia del loro lavoro.
 

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