Se ne è parlato tanto, nelle ultime settimane, del nuovo spettacolo firmato da Antonio Latella sul burattino più famoso al mondo. Latella decodifica il senso autentico del romanzo di Collodi o confeziona un’opera collegata all’attualità denunciando gli eccessi della nostra epoca?
In sostanza, Latella interpreta o segue Collodi? E poi, quanto è importante – se lo è – riconoscere la libera interpretazione del regista dal ‘tradimento’ dell’autore? Se si sceglie di reinterpretare, la revisione drammaturgica deve essere coerente e totale?
I pareri sullo spettacolo hanno diviso il pubblico, frutto di visioni diverse su quest’ennesimo Pinocchio. Così è accaduto anche ai nostri Mario Bianchi e Davide Sannia, di cui oggi vi proponiamo le riflessioni.
E voi, con chi siete più d’accordo?
PRO
E’ da poco che ho visto a Bologna il “Natale in casa Cupiello” di De Filippo con la regia di Antonio Latella, amandolo in modo particolare. Uno spettacolo che non solo rispetta il testo originale, ma che anzi ne enuclea in modo perfetto tutti i significati, creando un vero proprio omaggio a Eduardo: Eduardo come maestro indiscusso, come padre di una tradizione che non deve essere mai tralasciata, semmai venerata, per esser poi forse tradita alla luce di un tempo diverso da quando l’opera è stata scritta, e da diversa sensibilità autorale.
Ed era per questo che alla fine di quello spettacolo, nella capanna del presepe, tanto amata dal protagonista, veniva imbastito proprio per lui, per Luca Cupiello, un funerale che in definitiva era una rinascita, visto che il corpo del capofamiglia era adagiato al posto del Bambino. A suggello di tutto ciò, la voce di Eduardo risuonava più volte invitando dunque a farlo, questo presepe, nonostante la paura che qualcuno pensasse che venisse distrutto dal regista napoletano, come del resto è avvenuto da chi reputa che il Teatro debba rimanere sempre uguale a sé stesso.
La stessa cosa accade in “Pinocchio”, giunto da poco al Piccolo Teatro di Milano.
Latella, come già accaduto per Eduardo, segue l’autore, in questo caso Collodi, interpretandolo ed enucleando in modo personale, senza mai tradire se non attualizzandoli in un sentire contemporaneo, tutti i temi portanti che il capolavoro di Carlo Lorenzini suggerisce. Suggerisce, appunto. Il regista napoletano (che ha costruito la drammaturgia con Federico Bellini e Linda Dalisi) li allarga, restituendoceli pienamente e arricchendoli di nuovi approfondimenti, senza per altro tradire alcunché.
La scena (di Giuseppe Stellato) è coperta da una miriade di trucioli che scendono in maniera copiosa dal graticcio, in modo perpetuo; poco altro la delimita: una porta di metallo da cui uscire nel mondo esterno, il cui rumore e movimento vengono amplificati e riverberati, una fisarmonica muta, e un enorme tronco di legno pendente e perpendicolare, che si allunga ed accorcia, simbolo forse di un naso o della sostanza di cui sono fatti il teatro e lo stesso Pinocchio; e poi ancora apparizioni di animali, un tavolo da lavoro da dove nascerà il burattino, macchinerie teatrali.
Lo spettacolo è nettamente diviso in due parti. Nella prima, volutamente raccogliticcia, a volte sgangherata nei modi e nella sua stessa teatralità molto disadorna, vi è la storia di Collodi con i suoi passi fondamentali: la creazione del burattino, la sua voglia di andare per il mondo contro le paure di Geppetto, la presenza del Grillo parlante che lo mette in guardia dai pericoli, l’acquisto dell’abbecedario, il teatro dei burattini, Mangiafuoco che gli dà le cinque monete d’oro, il Gatto e la Volpe che impiccano il protagonista.
Pinocchio, pur fatto di legno, è un ragazzo che ha nella sua prorompente vitalità tutte le caratteristiche dell’adolescente, ancora immaturo rispetto ai suoi limiti e alle proprie potenzialità (a cui dà grande forza e credibilità Christian La Rosa, che avevamo già conosciuto come Oreste in “Santa Estasi”).
Pinocchio non vuole essere racchiuso in un corpo che lo opprime e a cui sente di non appartenere.
E’ infatti un ragazzo con indosso un pezzo di legno che lo appesantisce, simbolo di realtà e fantasia. Il nucleo familiare non esiste: il padre lo ha creato sostanzialmente per i comodi suoi ed il ragazzo fa fatica persino a pronunciare il nome “mamma”, e del resto la fata dai capelli turchini non lo è, anche se lo vorrebbe.
La seconda parte dello spettacolo, scenicamente molto più composita e pregnante, raggiunge secondo chi scrive una delle vette del teatro di Latella, fin dall’inizio, quando si rinnova la dicotomia tra reale e fiaba, tra esistenza e teatro, e dove i personaggi acquistano la loro vera essenza. Pinocchio è morto e i personaggi, o meglio le ombre degli altri personaggi che non hanno sostanza umana, intorno a lui, si chiedono se devono ridestarlo, dato che la morte nel loro mondo non esiste.
Pinocchio si sveglia e prende coscienza di sé all’interno di un mondo sbagliato, in cui i giudici lasciano andare i ladri ed imprigionano gli onesti, un mondo che lo respinge: altro che bugie, le sue sono bugie veniali, sono gli altri che lo hanno sempre ingannato con menzogne ben più grandi.
Ecco che poi, davanti alla tomba della bambina dai capelli turchini, piange e, attraverso il dolore della perdita (ora) e dell’ingiustizia (prima), prende coscienza di sé: “Mi avete sfracellato i coglioni, tutti quanti! Questo si fa, questo non si fa! Volete un bambino perfetto? Compratevi un pupazzo!”.
E un bambino lo diventa, si disfa della parte di legno che ha dentro sé l’anima di Lucignolo e vede la realtà come è veramente: “Non vedi che il mondo è pieno di burattini come me, di marionette, di pupi, di robot auto-assemblati, di automi, di replicanti, di cloni clonati?… Tutti come me. Senza il battito, un mondo che non mi ha fatto capitare ancora “un quarto di bene”.
E’ in questo modo che la doppia natura, umana e burattinesca, del protagonista consente a Latella di parlare del mondo in cui viviamo, di realtà e fantasia, di figli senza padri, in un mondo in cui la morale vera la fanno gli animali – chiocciole, galline e tonni -, perché la morale degli uomini è sempre costituita da bugie.
C’è poi il finale, che invece non ci trova del tutto consenzienti, perché pare spiegare troppo quello che già si è compreso, con il figlio diventato grande che torna dal padre per rimproverargli la sua mancanza, e Geppetto che risponde con la mancata possibilità di poterlo amare.
“Ma che senso ha vivere così”, gli rinfaccia allora il figlio, con l’assoluta preghiera di crescere, anche lui, perché solo in questo modo la ferita potrà essere risanata.
Un finale che, nonostante tutto, ci fa capire come Pinocchio – vissuto in definitiva senza un padre che lo accudisse, e senza una madre – sia riuscito a fortificarsi attraverso il dolore, e con le sue stesse forze sia riuscito ad imparare tutte le lettere dell’abbecedario e a declinarle in modo perfetto, diventando un uomo a tutti gli effetti, in grado di capire e giudicare.
Mario Bianchi
CONTRO
Quando assistiamo ad una regia di Latella siamo abituati a qualcosa di rivoluzionante. Qualcosa d’inaspettato già a partire dalla dimensione più fisica.
Come dimenticare, ad esempio, lo smontaggio totale delle scene nel suo Arlecchino da parte di tecnici e attori, il generale rovesciamento di alcuni canoni, pur nel rispetto quasi maniacale dell’essenza di un’opera, a partire dal testo originario, per tornare allo stesso in modo differente. Una rivoluzione che, spesso, ha portato molti spettatori ad abbandonare stizziti la sala gridando allo scandalo, alla deturpazione del sacro quando si trattava invece di eccessivo rispetto nel proporre una visione artistica.
Ecco perché, forse, abbiamo un po’ sofferto questo Pinocchio.
Conosciamo bene la necessità del regista napoletano di proporre al pubblico personali visioni di opere che sono basi inossidabili della nostra cultura. E’ stato così per il recente “Natale in casa Cupiello”, che ha mosso polemiche e dibattiti accesi, ed era successo lo stesso con Arlecchino quando andò in tournée in Veneto.
Pinocchio va invece in una direzione, a parere di chi scrive, diversa. Una strada “altra” che si era percepita anche durante l’incontro con la compagnia svoltosi nel Chiostro Nina Vinchi nell’ambito di una serie di appuntamenti intorno allo spettacolo organizzati dal Piccolo. Una tangibile incertezza degli attori (pur bravissimi) nel tentativo di spiegare al pubblico il fine ultimo del lavoro. Qualcuno aveva paragonato la complessità di tematiche che Latella affronta all’altrettanto intricata costruzione della vita di ciascuno, ma è evidente che si trattasse di una semplificazione troppo estrema.
La realtà è che il testo di Collodi è un campo minato di rimandi, metafore e richiami ben lontano dalla favola disneyana a lieto fine che viene tramandata ai bambini su schermo; è semmai più vicino alla Commedia dantesca.
Ecco quindi perché era indispensabile accogliere l’avvertimento della compagnia espresso durante l’incontro: “Recatevi a teatro sgombri del vostro Pinocchio e pronti ad accettarne una visione nuova”. Così abbiamo fatto.
Di fronte a noi un impianto scenico enorme, quasi di ronconiana memoria, con tutti gli attori sempre presenti ed alcuni elementi simbolici ingigantiti. Fra tutti un tronco d’albero aggettante costituisce il fulcro scenografico principale. E’ da esso che cade il famoso pezzo di legno da cui Pinocchio prende vita, ed è proprio dalla nascita del burattino che si sviluppa tutto il primo atto.
Dal momento in cui una sega da falegname adoperata da Geppetto intaglia il pezzo d’albero, quattro “nevicatori” distribuiti sulle americane inondano quasi ininterrottamente il palco di trucioli, inficiando un po’ la fruibilità dello spettacolo.
La nascita del personaggio è accompagnata dall’irrompere di un linguaggio che da vagito diventa a poco a poco parola.
Christian La Rosa, abbandonati i panni dell’Oreste di “Santa Estasi”, si mostra al pubblico come l’eroe di un film americano d’azione, con tanto di ginocchiere e paracolpi.
La drammaturgia si mette in moto in maniera (fin troppo) lunga e dilatata; la voce quasi stridula del protagonista si prolunga nel tempo e negli spazi scenici, numerosi, sparsi e confusi. L’azione sembra qui proseguire lineare e fedele a Collodi; compaiono tutti i personaggi del racconto, dal teatrino dei burattini al Gatto e la Volpe, portatori questi ultimi di un interessante rimando alla commedia dell’arte.
La sensazione predominante è di assistere però a qualcosa di disomogeneo e sfuggente, lontano da quell’affascinante aurea che l’onirico ricercato dovrebbe portare con sé. Alla fine di questa prima parte, ligio al suo dovere ancestrale, anche il Pinocchio di Latella muore.
Il secondo atto inizia dalla fine del mondo, da quegli inferi da cui la regia ci vuole mostrare il back stage della fiaba. Un must latelliano, che ama alzare il coperchio del teatro per farci vedere il reale attraverso la rinascita del protagonista. Di certo è la parte più convincente e fruibile dello spettacolo, perché rivolta al quotidiano. Le luci si fanno maggiormente cupe e il tronco diventa sempre più una presenza minacciosa, che divide e separa. Anche i personaggi si fanno più umani e vicini nell’affrontare quelle tematiche che ormai conosciamo come costanti di quasi tutti gli allestimenti del regista napoletano.
C’è poi il lungo turpiloquio, quella rabbia di Pinocchio di cui si è scritto fin troppo, caricandola di esagerata importanza, come spesso accade, per uno spettacolo la cui visione “per le tematiche affrontate e il linguaggio utilizzato in alcune scene, è consigliata dai 14 anni”.
Eppure, al termine delle quasi tre ore di spettacolo, la sensazione predominante è di avere assistito ad un lavoro complesso, con tanti (forse troppi) spunti ancora inespressi, per una messinscena che, seppur affidata ad una compagnia di attori infaticabili, lascia la sensazione di qualcosa di decisamente lontano dalla amata “via latelliana”.
Davide Sannia
Pinocchio
drammaturgia Antonio Latella, Federico Bellini, Linda Dalisi
regia Antonio Latella
scene Giuseppe Stellato
costumi Graziella Pepe
musiche Franco Visioli
luci Simone De Angelis
con Michele Andrei, Anna Coppola, Stefano Laguni, Christian La Rosa, Fabio Pasquini, Matteo Pennese, Marta Pizzigallo, Massimiliano Speziani
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
durata: 2h 50′
Visto a Milano, Piccolo Teatro, febbraio 2017