“Veloce, se vuoi salvarti!”: è il grido accorato che l’eterea Viola urla nei timpani del fratello mentre lo esorta a una folle corsa da fermo, verso il vuoto.
Lo spettacolo di Irene Von Dorigotti e Andrea Ciommiento, andato in scena al Cubo Teatro di Torino nell’ambito di Schegge (prossimo appuntamento stasera e domani con “Entusiasmozero” di Fabio Marchisio), si configura sin da principio come una corsa contro il tempo, un countdown che è anche resa dei conti (con se stessi e con i propri demoni), un’ossimorica dialettica di duelli e fughe sotto il cielo greve e plumbeo di una Torino allagata dagli iperbolici allarmismi dei bollettini meteorologici.
Il nemico invisibile, l’Altro che ci insegue “come un pazzo con il rasoio in mano”, non è il Destino di Arsenij Tarkovskij e nemmeno il cataclisma imminente, bensì la Paura che precede ed alimenta la sciagura, quell’inquilino abusivo e scomodo che rende l’Io ospite in casa propria, come direbbe Freud.
Su questo palco-arena, vuoto e spoglio, avvolto dall’abbraccio semicircolare del pubblico, si stagliano quattro dimessi Cavalieri dell’Apocalisse, interpretati dagli attori Emanuele Buganza, Giuseppe Fabris, Elisa Guarraggi e Nina Silla, intenti a snocciolare l’elenco testamentario delle loro priorità, la personalissima lista di valori e significati che rendono unica la vita di ciascuno.
Lentamente la febbre tassonomica lascia il posto a una danza rituale dalle movenze sciamaniche, un ballo tribale e dionisiaco in cui i personaggi, come ebbre e scomposte Baccanti, evocano la catastrofe che si manifesterà sotto forma di diluvio: “Piove da tre giorni”, annuncia una Cassandra di passaggio al semaforo.
Al centro di questa storia – se di storia si può parlare, dato l’andamento programmaticamente frantumato e “slabbrato” di un montaggio articolato per quadri intermittenti – ci sono due coppie, due isole di terra circondate e separate dall’acqua, sulle quali il focus del dramma si alterna con schizofrenia di voyeur.
Il succedersi delle istantanee cattura in presa diretta, come spiando dal buco della serratura, i nevrotici interni domestici e psichici di questi soggetti paranoidi, colti in preda ad un crescendo di isteria già presagio del disastro a venire, che sparpaglia di fronte al pubblico brandelli di conversazioni, alterchi familiari e piccole schermaglie casalinghe.
Ad ingrossarsi sotto la pioggia imperturbabile è un fiume carsico di piccole ossessioni e nevrastenie, tensioni affettive, ricordi e fantasmi del passato, latenti insoddisfazioni e desideri inconfessati: una marea di perturbanti tarli interiori che riaffiorano dall’oblio cautelativo e costringono i personaggi ad uscire dalla loro apnea emotiva solo per essere poi abbandonati alla deriva, lasciati ad annaspare nell’angosciosa inanità dell’esistenza.
Quello che si palesa di fronte agli spettatori è dunque uno stato di emersione, un ritorno del rimosso, costruito sul non facile equilibrio tra scivolamento orizzontale sulla superficie dell’ordinario quotidiano e scandaglio verticale ed introspettivo delle identità in scena.
Questa timida Odissea contemporanea – che pare scandita solo da naufragi e da nessun approdo – esplora le contrade della solitudine attraverso lo specchio di relazioni disfunzionali ed autistiche. Da una parte si ha infatti la crisalide morbosa e asfissiante di un rapporto tra fratello e sorella screziato dall’ombra di un archetipico incesto; dall’altra la bellicosa convivenza di due coinquilini inclini alla baruffa: la gattara, che si nutre di assenza e mancanza, invischiata com’è nella resina di un amore ormai estinto, e lo scaltro surfista della vita, lo scanzonato Arlecchino dagli accessi malinconici e farseschi che, vestendo i panni di un affittuario moroso e poltrone, incarna magistralmente lo sgangherato e simpatico parassita di ascendenza plautina.
Si tratta, in entrambi i casi, di coabitazioni forzose, di relazioni che innescano inevitabili gerarchie di potere e di controllo, claustrofobiche dinamiche di oppressione e di ottusa incomunicabilità, in cui ogni tentativo di dialogo si riduce al sordo cozzare di ermetici soliloqui e alla presa d’atto dell’impossibilità di evadere dalle proprie bolle di esasparante solipsismo. È il caso, ad esempio, della chiara incompatibilità fra il tronfio “Dottore”, plurilaureato gestore di una piscina sulla collina torinese, tutto pragmaticità e senso del dovere, e sua sorella Viola, farfalla diafana e incostante dall’innocenza di fanciullino pascoliano, una candida Alice nel Paese della Deresponsabilizzazione.
Paura e Vita: sono questi i due poli fra cui oscilla il testo di Von Dorigotti e Ciommiento, che pone lo spettatore di fronte a un implacabile dissesto idroemotivo, più che idrogeologico. Come afferma uno di loro: “Le catastrofi invitano a guardare nei propri armadi”.
Sul palco non resta che lo spettacolo tragicomico – più tragico che comico – di una frana interiore, uno smottamento di rimorsi, nostalgie, rancori e autoinganni che progressivamente annegano i protagonisti sotto il sudario di un’inesorabile colata di fango.
Il terreno su cui si muovono questi funamboli è quello fragile e cedevole del nostro presente, connotato da una precarietà strutturale. In questa società che impone la competizione e l’antagonismo, che non ammette l’insuccesso né l’anonima mediocrità, e classifica gli individui in termini di prestazione e produttività, l’unica arma di sopravvivenza è correre più veloci degli altri, arrivare primi al traguardo.
Ma la generazione ritratta dal collettivo CO.H è una generazione spossata in partenza, stanca e arrendevole, una generazione postuma a se stessa, nata già superstite e imprigionata nel limbo dell’irresolutezza: “Non sappiamo come salvarci”, afferma sconsolata Viola.
L’abbiamo dimenticato, o forse semplicemente non l’abbiamo mai imparato, e pertanto ci limitiamo a restare a galla, boccheggiando fra le onde di quella che il sociologo tedesco Ulrich Beck, in un saggio dell’86, definì “società del rischio”.
L’eco-disastro di “Primavera Sacra“ ha infatti i tratti di una catastrofe endemica, di una necessità immanente che non ha nulla dell’extra-ordinario o del trascendente, e simboleggia piuttosto un rischio strutturale e sistemico, sempre incombente, una sorta di metafisica spada di Damocle al contempo temuta e masochisticamente anelata, forse metafora velata di un’eutanasia volontaria.
Asserragliati nella Fortezza Bastiani delle loro anguste e angustiate coscienze, i personaggi scrutano il Deserto dei Tartari metropolitano in adrenalinica attesa che la minaccia – l’annunciata piena del fiume, conseguenza del nubifragio – si profili all’orizzonte.
Ma Beckett ci ha insegnato a diffidare di qualsiasi Godot. Difficile capire se la paventata alluvione di questa Waste Land pedemontana avvenga realmente o sia piuttosto frutto di un’allucinazione collettiva indotta da un atavico complesso di colpa, nient’altro che una proiezione psicotica di questi automi beckettiani che quasi implorano il battesimo divino dell’acqua come espiazione.
Resta insomma il dubbio se sia un’esondazione fattuale o soltanto interiore a determinare lo straripamento degli argini contenitivi della normalità. La catastrofe viene accolta quasi con sollievo e stoica atarassia – “Tanto forse non ci sarà un domani” – diventando panacea dello spleen: se c’è la morte, non ci siamo noi. Dunque perché temere la morte? Ma più appropriato sarebbe chiedersi: perché temere la vita?
Nessuna epifania, nessun riscatto attende i quattro protagonisti. Nessuna catartica palingenesi, come suggerirebbe il titolo di “Primavera Sacra”(il Ver Sacrum era un rituale antico, in uso presso i Sabini, che prevedeva la migrazione di parte della popolazione a fondare nuove colonie a seguito di calamità naturali, carestie o periodi di eccessiva pressione demografica).
Ma alla modernità sembra precluso il privilegio della rifondazione, di quella rigenerazione prospettata dai cicli cosmici indiani. Nessuna cosmogonia dal caos. Qui la distruzione è invocata al solo scopo di inceppare l’eterno, sclerotico e monotono ritorno dell’uguale, ed emancipare l’individuo dalla paralisi e dalla progressiva aridificazione dei territori dell’Ideale.
Ma non solo, la catastrofe svolge la funzione di alibi autoassolutorio, giustificazione di una volontà troppo spesso anemica e indolente, esitante nell’autodeterminarsi e imprimersi una direzione: “Quante cose sarei potuto essere”, esclama uno dei personaggi poco prima dell’abbattersi del cataclisma. E‘ sempre il rimpianto a tremare sull’orlo della Fine.
Ancora una volta, dunque, l’intramontabile figura dell’inetto novecentesco, figura emblematica della castrazione e dell’impotenza, proietta la sua ombra lunga sulla cosiddetta “Generation what?” del disturbo d’ansia generalizzato, e ne legge le inquitudini sub specie tribulationis, in chiave di un non meglio specificato disagio esistenziale.
D’altronde un teatro che ardisca a proporsi come barometro del contemporaneo non può che attirarsi il plauso e il biasimo dell’azzardo ermeneutico. Doveroso menzionare a questo punto l’indovinato apologo biblico finale, di sapore veterotestamentario – che ricorda vagamente le incursioni visionarie fra Antartide e Paradiso del Tony Kushner di “Angels in America“ – in cui un Dio bambino, giustiziere immemore, si diverte a saltare nelle pozzanghere sotto lo scrosciare di una piogga battente. Mentre all’Uomo non resta che scavarsi la propria nicchia ecologica nello Stato di allerta permanente dello scacchiere globale, ed escogitare nuove forme di resilienza e resistenza, facendosi amica la catastrofe: “Sventoleremo le nostre radiografie per non fraintenderci / ci disegneremo addosso dei giubbotti antiproiettile”, cantava qualche anno fa Vasco Brondi in “Cara catastrofe”.
PRIMAVERA SACRA
di Irene Von Dorigotti e Andrea Ciommiento
con Emanuele Buganza, Giuseppe Fabris, Elisa Guarraggi, Nina Silla
regia Andrea Ciommiento
progetto grafico Giulia Fiorinelli
illustrazioni Alina Vergnano
produzione CO.H (Torino) in collaborazione con ECOCAMP / Casa Campidoglio (Torino)
durata: 1h 10′
applausi del pubblico: 3′
Visto a Torino, Cubo Teatro, il 26 febbraio 2017