“La bellezza sarà convulsa o non sarà”. Francis Bacon torna in Italia

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Francis Bacon
Sembrerebbe esulare dall’argomento teatrale, la mostra che si è inaugurata la settimana scorsa a Milano su Francis Bacon. Eppure, percorrendo le linee d’una biografia dettagliata – che apre il percorso espositivo prima d’immergersi tra i lavori dell’artista anglo-irlandese – qualcosa di “teatrale” emerge.
Sono forse quei volti trasfigurati, il profondo conflitto interiore o il legame con il pensiero artistico e culturale di un’epoca, ad evocare suggestioni che riportano a scenari paralleli: “Nessun pittore del Novecento, neppure Picasso, ha avuto l’ascendente di Bacon, non come pittore, ma come filosofo, come titolare di un pensiero critico, di una visione del mondo come presa di coscienza della condizione dell’uomo contemporaneo – spiega Vittorio Sgarbi nella presentazione alla mostra – Per indicarne gli equivalenti occorre pensare a Beckett o a Sartre, a Camus o a Cioran”.

Francis Bacon è stato definito l’ultimo dei grandi maestri del Novecento, eppure in Italia non gli veniva dedicata una mostra dal ’93, anno successivo alla sua morte. Quella milanese a Palazzo Reale anticipa invece gli omaggi che saranno dedicati all’artista nel 2009, centenario dalla nascita, da istituzioni come la Tate Gallery di Londra, il Prado di Madrid o il Metropolitan Museum di New York.
La mostra, curata da Rudy Chiappini, sarà visitabile in piazza Duomo fino al 29 giugno.

Il percorso espositivo propone più di cento opere, quasi tutte inedite per l’Italia: 82 dipinti a cui si aggiungono una quindicina di disegni e altrettanti oggetti d’archivio. Si parte dagli anni Trenta, che rivelano un Bacon ancora alla ricerca di un linguaggio personale ma già attratto dalla deformazione e dall’ambiguità, per proseguire fino agli anni Novanta.
La mostra permette anche di avvicinarsi all’atmosfera dell’atelier londinese di Bacon, grazie alla riproduzione fotografica del suo studio al 7 di Reece Mews, dove creò dal ’61 al ’92 e in cui assemblò tele, colori, oggetti, carte ed emozioni, in un’unione caotica e da tipico “artista maledetto”, in totale contrapposizione all’ordine maniacale della stanza accanto, a cui riservava una funzione più casalinga.

“Come un lampo nell’oscurità le opere di Francis Bacon rivelano, per un istante che sfida la persistenza del tempo, la brutalità, la violenza, la convulsa bellezza della vita – illustra Chiappini – Di fronte alla ricchezza dell’esistenza che merita di essere vissuta pienamente e senza ipocrisie, l’urgenza espressiva del linguaggio di Bacon, definito crudo e brutale per eccesso di verità, si trasforma in ricerca di emozione. Diventa stupore di fronte a un mondo nuovo, al di là delle regole, delle gerarchie e dei generi”.

L’arte di Bacon trae origine dallo smarrimento e dallo stupore di fronte alla vita. L’artista rende sulla tela l’universo cupo e disperato che lo circonda partecipando appieno a quel mondo in cui è storicamente immerso e di cui i fotogrammi della “Corazzata Potëmkin” di Ejzenstejn sono esempio.
Tra i suoi soggetti preferiti, che trasporrà anche in splendidi trittici, ci sono spesso persone a lui vicine: dai compagni della vita sentimentale a profonde amicizie come quelle con Henrietta Moraes, il pittore Lucian Freud o il critico Michel Leiris.

“Il sapersi spingere fin sull’orlo dell’abisso senza precipitare nel baratro dell’informe, del senz’anima, e la volontà di mantenere sempre e comunque vivo il rapporto con la realtà umana e psicologica dei personaggi ritratti conferiscono alla poetica baconiana il carattere di una straordinaria assolutezza e costituiscono, con ogni probabilità, la più alta esperienza della pittura di figura incarnata in forme contemporanee. […] Bacon ha sempre posto l’uomo con le sue debolezze, le sue perversioni, la sua affascinante complessità, al centro della propria indagine, raffigurandolo nei modi più crudi violenti e disincantati, trasformandone l’immagine in una dubbiosa tormentata icona, convinto che dietro tutto quell’orrore si celasse l’ineluttabilità di un destino già scritto che la grande arte deve affrontare senza ipocrisie moralistiche”.

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