Come devo parlare di teatro al mio idraulico?
E’ una domanda che potremmo citare, estremizzando, per focalizzare l’attenzione su alcune delle tante questioni emerse durante la giornata ospitata dal Teatro Fassino di Avigliana (TO) per il primo incontro di “Lessico Contemporaneo”, nuovo progetto annuale proposto da C.Re.S.Co, aperto a tutti gli artisti della scena piemontese.
La tematica di partenza per quest’indagine/confronto tra operatori – che sarà, nel corso del 2016, itinerante per l’Italia (domani è in arrivo a Roma, al Teatro India) – è chiara: quali sono le visioni e le linee guida di chi crea il contemporaneo oggi?
Dal quesito “fondante” sono poi emerse, all’interno dei membri di C.Re.S.Co, altre sei questioni più specifiche, che starà ai vari tavoli sviscerare, nel corso di questi mesi, ognuno coi propri punti di vista.
I tre focus scelti per la data piemontese sono stati introdotti dai “padroni di casa” della Piccola Compagnia della Magnolia, che ad Avigliana hanno proposto di puntare l’attenzione su questi argomenti:
1 – Alla ricerca dell’equilibrio dell’artista tra forma e verità (una “verità” che, nel corso della giornata, è poi stata modificata in ‘contenuto’): l’analisi dei processi
2 – Quali contenuti stimolano maggiormente la nascita di un tuo processo di creazione
3 – Prove: ripetizioni e riproducibilità dell’opera d’arte (metodi e pratiche fra tradizione e ricerca).
La scelta di questi tre topic, rispetto ai sei disponibili, appare da principio come una decisione che intende privilegiare un’interrogazione dell’artista sulla propria arte e i relativi processi di creazione, eliminando lo sguardo esterno del pubblico. Una opzione che potrebbe apparire, a un osservatore esterno, come una visione autoreferenziale, per certi versi più ‘solipsistica’, di un processo artistico in qualche modo poco influenzato dalla componente dello spettatore.
Sarà però impossibile, nel corso della giornata, rimanere così rigorosi, e il pubblico riuscirà comunque ad “insinuarsi” anche in queste “faccende” di creazione in senso stretto. E non a caso.
La domanda iniziale, ironica ma reale, scelta per focalizzare solo alcuni dei punti emersi nella giornata di Avigliana (una domanda rivolta all’ipotetico idraulico tirato in ballo da Massimo Betti Merlin del Teatro della Caduta), starà lì, in agguato, quasi che – per molti degli artisti presenti, forse non per tutti – sia ineliminabile.
Ne uscirà anche un lungo e vivace scambio d’opinioni fra l’esperienza dello stadio per una partita di calcio e il teatro, tra parallelismi e antitesi, alla “disperata ricerca” di una soluzione per intercettare più spettatori.
Così il pubblico, sebbene non ufficialmente invitato a questo convivio, ne farà in qualche modo parte. Perché escluderlo del tutto da un discorso che vuole entrare nel merito del processo di creazione – e quindi anche nel lessico, nella parola, nel gesto, nella volontà e nell’atto comunicativo che l’artista costruisce – è impossibile. Sarà allora un bene farlo entrare, lo spettatore. Soprattutto se crediamo, come sostenuto da Michele Di Mauro, che l’artista debba condividere molto del suo processo creativo con il pubblico: un pubblico che non è solo quello della platea, ma che va considerato nel suo senso più ampio; è questione di livello culturale e di crescita continua, vivificata anche da un reale confronto pubblico.
Quest’urgenza di dialogo e scambio è però sentita da tutti gli artisti?
Il teatro orientale ha un insieme di forme e codici condivisi col pubblico, ci ricorda Officina Teatrale degli Anacoleti: l’appartenenza che si consuma nel rituale del teatro è immediata.
In India il pubblico è parte del processo artistico: deve formarsi, così come l’artista. Nell’approccio occidentale l’artista viene invece ritenuto “libero”, anche col rischio di perdere la connessione con l’altro, aspetto fondamentale ad esempio nella danza indiana.
Ma per noi occidentali, sostiene Giorgia Cerruti, consumare un rituale come quello orientale è difficile: parliamo di contesti del tutto diversi. Dobbiamo invece capire come arrivare a “meravigliare” il nostro pubblico e renderlo partecipe.
Come porsi quindi rispetto ad uno spettatore che oggi, come afferma Betti Merlin, ha reazioni molto convenzionali, un pubblico per certi versi “passivo”, a cui sembrerebbe mancare la volontà del confronto e del conflitto?
In passato il teatro è stato luogo di prese di posizione, di conflitti; oggi no, e secondo il direttore artistico del Teatro della Caduta ne servirebbero di più, anche nell’ottica che il teatro non sia “una prestazione di servizio”.
Allo stesso modo, sostiene, il confronto tra operatori oggi risulta molto blando, rimanendo in superficie. Una posizione comunque meno netta di chi asserisce che proprio “non esiste”.
E a proposito di confronto e conoscenza reciproca, una delle prime osservazioni della giornata piemontese emerge dalle assenze. Rispetto alle tante realtà artistiche della regione sono solo una decina quelle rappresentate nella domenica di Avigliana: Officina Teatrale degli Anacoleti, Compagnia Ellissi Parallele, Teatro della Caduta, Compagnia Ivaldi/Mercuriati Progetto Zoran, Santibriganti Teatro, Gianluca Bottoni, Statolento – collettivo di arti vive, Elena Guerrini/Creature Creative, Piccola Compagnia della Magnolia e Michele Di Mauro.
Troppo poche perché si riesca ad avere un’idea più ampia dello stato di fatto del linguaggio del contemporaneo piemontese; tuttavia un numero più gestibile per riuscire ad innescare dinamiche interlocutorie e di scambio tra i partecipanti, nell’ottica di offrire l’input per una conoscenza reciproca, anche nelle modalità operative della ricerca e della creazione artistica di ognuno: nelle differenti nature dei partecipanti e dei rispettivi processi e contenuti.
La ridotta partecipazione rispetto alla varietà di compagnie e artisti piemontesi evidenzia però quella che potrebbe essere vista come la mancanza di un’urgenza di confronto su tematiche che dovrebbero invece essere basilari. E qui torna, inevitabile, una parola già utilizzata: il teatro piemontese è troppo autoreferenziale? E’ troppo chiuso all’interno dei propri processi, non solo nell’ottica dello spettatore, ma anche del lavoro dei colleghi?
E’ un po’ l’impressione che chi scrive raccoglie andando in giro per festival o rassegne.
E’ quindi fondamentale, se interpretata nella sua purezza, la domanda posta da Michele Di Mauro: “Come ci si può davvero confrontare? Spesso nel confronto noi vogliamo solo essere riconosciuti; ma occorre oggettivare e non soggettivare”.
Per certi versi “oggettivato” sembra invece, per toccare un altro argomento emerso, il processo creativo utilizzato da molte giovani compagnie: si tratta, per riprendere le parole di Di Mauro, di un processo alla creazione ormai standardizzato, ed ecco perché si vedono molti spettacoli fotocopia, non solo negli argomenti scelti ma proprio nella loro costruzione.
L’importanza di riconoscere la firma di un lavoro, e il suo percorso (indipendentemente dal fatto che possa piacere o meno), è sottolineata da Giorgia Cerruti, che al contrario vede oggi in molte giovani compagnie un “seguire le mode”.
Se da una parte sembrano mancare, nei giovani, il coraggio e le competenze, dall’altra i problemi economici del settore favoriscono “lavori pret-à-porter”, come li definisce Gianluca Bottoni.
Ecco allora sbucare anche qui, caratteristica della nostra epoca, la mancanza di “tempo” – elemento indispensabile per approfondire una conoscenza, un percorso, un confronto –, ormai sacrificato dalle derive di un sistema infarcito di bandi e residenze, stimolatori della necessità indotta di inventare un contenuto sempre nuovo per parteciparvi (e forse sopravvivere, ma da artisti!). Progetti che magari non si riusciranno neppure a portare a termine in maniera adeguata: non ci sarà tempo! E’ questo un sistema ormai imperante, a cui però nessuno sembra avere la forza di ribellarsi.
Che le reti e il confronto tra artisti possano servire anche a questo?