Come ogni anno siamo stati a Ravenna per la Vetrina della giovane danza d’autore, che si svolge all’interno del Festival Ammutinamenti e nasce da un’attenta ricognizione dei partner regionali del network nei rispettivi territori, volta a mappare e supportare le nuove generazioni di autori e autrici della danza contemporanea e di ricerca.
Un lavoro di scouting che offre, da più di vent’anni, a giovani autori/autrici/formazioni/collettivi/compagnie e gruppi italiani, attivi da meno di cinque anni, e selezionati con bando annuale, una preziosa occasione di condivisione, confronto e incontro con il pubblico, ma anche con operatori e operatrici, e critici di diverse generazioni. Inoltre gli artisti presenti hanno avuto l’occasione di confrontarsi con tutti gli operatori della danza ricevendone nuovi stimoli e un vero e proprio accompagnamento ai loro spettacoli.
Quattordici le creazioni a cui abbiamo assistito, realizzate da giovani danzatori e coreografi che, come nelle edizioni precedenti della vetrina, ci hanno permesso di conoscere da vicino i ragazzi e le ragazze che si affacciano al mondo della danza contemporanea, spesso dopo un lungo apprendistato, come si evince dai corposi curriculum.
Rispetto alle edizioni precedenti, in questa sono stati presentati solo quattro assoli, due dei quali ci sono particolarmente piaciuti.
Lorenzo Morandini, artista che nutre particolare interesse per la danza posta in contesti naturali, inonda di vivida luce il suo “Idillio”, destrutturando il meraviglioso “Sanctus” del Requiem verdiano in un gioco coreografico ironico e vivificante, in cui tutto il corpo dell’artista viene stimolato, trasmettendo così anche al pubblico una gioia liberatoria che pervade tutta la platea.
Molto intrigante anche “Anonima”, la performance imbevuta di sacralità in cui Cecilia Ventriglia, accompagnata da un fantoccio dalle forme cristologiche che all’occasione si smembra, si pone in relazione con lui, donandogli ogni volta un’atmosfera e un significato diverso che permea nel medesimo tempo la stessa performer. Dapprima ne scaturisce una lotta all’ultimo sangue, che si placa poi attraverso un continuo rapporto di posizioni che rimandano anche a diverse e riconoscibili iconografie.
Un lavoro commovente, che rompe i confini della danza verso orizzonti performativi inaspettati.
Molti invece i duetti, quasi tutti di eccellente fattura.
Roberto Tedesco, in “Punch 24”, pone in scena Antonello Amati e Laila Lucchetta Lovino, donando loro anche movenze clownesche che la danza esprime in modo compiuto. Sono piccole scene che si ricompongono ogni volta in modo diverso, in un continuum sempre nuovo e sorprendente.
Poeticamente divertente abbiamo trovato “Dodi” di Sofia Nappi, in cui Paolo Piancastelli ed Adriano Popolo Rubbio, agghindati con tanto di cappello come (forse) loschi figuri d’ispirazione mediterranea, sono invece immersi in un’atmosfera permeata di dolcezza, nella quale i corpi interagiscono tra loro, proiettando sullo spettatore un efficace spaesamento di senso.
Adriano Bolognino, in “Gli amanti”, si rifà ai celebri calchi scoperti a Pompei, trovati ancora abbracciati da quasi duemila anni e di cui si ignora la vera identità.
Mentre Rosaria di Maro e Giorgia Longo intrecciano una coreografia molto accurata di condivisione, in cui il respiro della danza invade non solo il palcoscenico, ma anche i rispettivi corpi, vivificandoli.
Emanuele Rosa e Maria Focaraccio reinventano a modo loro, in “How to _ Just another”, il Bolero, famoso brano musicale di Ravel. I due danzatori, che troviamo già in scena a terra a torso nudo, indossando solo semplici slip rosa, intrecciati tra loro seguono l’incedere ossessivo della musica, assecondandone il ritmo, e lo fanno mai in modo banale, donando invece alla musica nuovi riverberi, prima soprattutto con gli arti, poi con tutto il corpo, ma mai in piedi.
Alla fine, rialzatisi dopo aver cercato invano – e insieme – di staccarsi dal suolo per proiettarsi verso nuovi orizzonti, li ritroviamo ancora per terra, questa volta disuniti e sconfitti, pronti però a iniziare una nuova partita coreografica.
Visto al chiuso rispetto all’originale ambientazione esterna, un cambio che forse però dona più interessanti e inaspettate suggestioni liberatorie, ci è parso “About a Revolution” di Michael Incarbone, in cui una danzatrice dialoga con due performer in bicicletta, mentre lo sguardo dello spettatore si perde sia nella danza sempre diversa – che dialoga, intersecandosi con il girovagare delle bici -, sia nel moto circolatorio delle ruote che attraversano l’ampio spazio del palcoscenico.
Due gli esiti in cui abbiamo trovato suggestioni importanti ma secondo noi espresse o in modo ridondante o non del tutto compiuto.
Camilla Guarino con il danzatore non vedente Giuseppe Comuniello, in “Let me be”, compone una coreografia ben espressa, dove i corpi dei due performer si sostengono a vicenda attraverso una danza sempre attenta e puntuale, con un utilizzo sorprendente del video in cui una mano si presta come palcoscenico per una coreografia molto precisa composta dalle dita. Meno interessante la parte testuale recitata dalla Guarino, di cui forse ci è sfuggito il senso.
“Plubel” di Fabritia D’intino e Clementine Vanierberghe ha un inizio veramente folgorante, con le quattro performer viste di schiena su cui la luce gioca a rimpiattino dialogando con i movimenti delle braccia e delle mani, prima perfettamente sincroni, poi posizionati in un gioco di incroci sempre puntuali. Venticinque minuti di grande e misteriosa suggestione, che tuttavia si perde con la graduale visione del corpo delle coreografe e di Daria Greco e Céline Lefèvre, che si mostrano a seno nudo supportate da musiche via via sempre più didascaliche.
La Vetrina, come di consuetudine, è terminata con una prova d’autore, che consente a una giovane danzatrice di coreografare un’apposita creazione con un ensemble già collaudato. Quest’anno è stata affidata a Camilla Monga, che si è misurata con la MM Contemporany Dance.
Su musiche di Federica Furlani e Brian Eno, Camilla Monga immerge così sei giovani danzatori in un’atmosfera dai contorni sempre incerti, in un tempo senza tempo e in uno spazio in continuo divenire, con ottimi risultati di condivisione con lo sguardo e il sentire dello spettatore.