C’è un mondo che fa paura e inquieta dietro a “Red” di Wen Hui, la documentary performance in cui, a brevi spezzoni “live” danzati e parlati da quattro danzatrici (tra cui la stessa coreografa), si alternano stralci di interviste e video storici.
Il tema centrale del lavoro proposto da Romaeuropa Festival è “The red detachment of women”, opera classica della pubblicistica maoista: romanzo, film, balletto e poi di nuovo film-balletto, “Il distaccamento rosso delle donne” ha circuitato infinite volte nei teatri, alla radio e nei luoghi di lavoro cinesi negli anni Sessanta e Settanta, ed è tutt’ora opera di repertorio della compagnia di Stato.
Con “Red” Wen Hui e il suo Living Dance Studio Beijing tornano a quell’opera-manifesto cinquant’anni dopo: la raccontano, ne ripropongono spezzoni, ne intervistano artisti e spettatori, provano a metterla sul corpo di giovani danzatori.
C’è un mondo, si diceva, in “Red”. C’è la grande violenza dei vincoli politici che il regime totalitario ha impresso all’arte durante la Rivoluzione Culturale, che si esprimeva nell’assurdo canone delle “opere modello”: gli unici otto lavori (cinque opere liriche, due balletti e una sinfonia) a poter essere rappresentati per mostrare al popolo valori e modelli da seguire o rifiutare, sulla scia di un realismo di matrice socialista se possibile ancor più becero di quello staliniano. Sono opere in cui, alla brutale semplificazione dei caratteri e delle forme della danza tradizionale cinese, mescolati e quasi fatti accoppiare a forza con stilemi tratti dal balletto occidentale ottocentesco, si unisce un’estetica posticcia e naif.
Messe in scena con la pratica di artisti cooptati quasi a forza, di danzatrici puerpere a cui si proponevano divorzi o misteriose “iniezioni” per interrompere una scomoda lattazione, erano trasportate, dopo settimane di prove intensissime, nel mondo rurale del “Grande balzo in avanti” e delle piccole fabbriche strangolate dagli altalenanti rapporti politico-commerciali con l’URSS.
Ma non manca anche uno squarcio sull’operazione sinistramente behaviorista per cui le “opere modello”, continuamente e ciclicamente trasmesse per radio, si insediavano nella memoria degli ascoltatori, e ancora oggi, a quarant’anni di distanza, resuscitano all’ascolto in sobbalzi di gioia artificiale ormai inestricabile dalla vera. E c’è la lotta del passato contro il presente – o meglio, la sconvolgente incapacità del presente di lottare contro il passato per oggettivarlo in un discorso sia pur problematico ma condiviso (all’Italia che recupera atteggiamenti ottusamente irrazional-popolari e di fideistico abbandono a capipopolo non fischino le orecchie).
Ed ecco che dei protagonisti intervistati, alcuni dei quali sono oggi impegnati nel mondo della cultura, del sociale e dell’educazione, qualcuno rivive con una nostalgia leopardiana quegli anni passati a farsi sanguinare le punte delle dita o a canticchiare i numeri del balletto, mentre assisteva dalla platea all’ennesima replica, o sul palco assumeva – su indicazione del regista – «posizioni piene di odio di classe». Qualcun altro ridacchia di uno spettacolo che aveva certo del patetico, ma che è a ben vedere assai più tetro che comico. Almeno quanto la valigia sotto il letto del povero Šostakovič.
La forma di “danza live più video” escogitata da Wen Hui mostra di non essere (ancora?) del tutto efficace. Troppo distanti sembrerebbero essere la tenace tridimensionalità del corpo danzante in scena e la schiacciante doppia dimensione del telo di proiezione, nonostante il generoso e a suo modo emozionante tentativo di far fisicamente penetrare, in un paio di occasioni, i corpi delle danzatrici nello schermo, in materiale elastico, divenendo un tutt’uno con fermo-immagini del balletto, o con un libro che, alla maniera delle “disposizioni sceniche”, riporta le coreografie del “Distaccamento”, per una loro pronta e fedele riproduzione.
D’altra parte tutto questo contenuto, queste donne e questi uomini che sembrano strigliati, prosciugati, battuti, portati a giro come festuche dalla storia affascinano e insieme spiazzano. Anche troppo: il video in cui sono i loro corpi ancora diritti ma come svuotati prende prepotentemente il sopravvento sui corpi, ben più presenti, delle danzatrici, e le parole delle persone intervistate arrivano prima e più forte di quelle dette in scena.
Eccolo, il mondo di “Red”, è fatto di tutte queste cose. Ma molta parte di esso rimane espressa in modo incompleto, come sigillata. Sia nel senso che rimane quasi ignota a sé stessa, esposta con una inquietante nonchalance, quasi gettata a manciate come le parole di questi uomini e queste donne, che sorridono e non si riconoscono vittime della Storia; sia nel senso della sua forma forse volutamente oggettiva, forse cautamente trattenuta (Wen Hui seguita a lavorare e a vivere in Cina), che non riesce a comunicare come lavoro d’arte – qualunque cosa ciò significhi, beninteso – né a dispiegarsi come tale sulla scena. È bloccata da questa sorta di duplice diaframma che lascia scomodamente perplessi. Come le tradizionali ombre cinesi, tutto sembra rappresentato dietro uno schermo lattiginoso, e se le figure sono riconoscibili, i confini e i contesti in cui si muovono per lunghi tratti si fanno sfocati. L’uomo vero, in carne e ossa, come di regola, si tiene celato.
RED
Coreografia Wen Hui
Testi Zhuang Jiayun
Drammaturgia Kai Tuchmann
Performer Wen Hui, Zou Xueping, Li Xinmin, Liu Zhuying, Li Yuyao Luci Edwin van Steenbergen
Video Zou Xueping Scenografia Zhou Jie
Interviste Wen Hui, Zhuang Jiayun, Zou Xueping
Musica Wen Lvyuan Traduzioni Guo Rui, Xu Qian
Coproduzione Beijing Living Dance Studio, Goethe-Institut China
Foto © Richy Wong
durata 60’
applausi 1’ 30’’
Visto a Roma, Teatro Vascello, il 13 ottobre 2018