Al Teatro Out Off fino al 2 aprile, il “romanzo teatrato” del drammaturgo meneghino, sua ultima opera finora mai messa in scena
È una malattia, il teatro. Ed è una malattia anche la lingua, sempre insufficiente a rendere il mix convulso di moti interiori che fanno di ciascuno di noi una persona irripetibile.
È un nodo di nervi, viscere, parole e chiaroscuri il monologo “Regredior”, epilogo letterario di Giovanni Testori (Nova Milanese 1923 – Milano 1993), completato nel 1992 in un letto d’ospedale pochi mesi prima di morire.
Rimasto a lungo inedito, lo stesso autore definiva “Regredior” un «romanzo teatrato».
Per la prima volta, un Roberto Trifirò ispiratissimo lo mette in scena al Teatro Out Off di Milano, dopo una rielaborazione del testo durata due anni, in questo 2023 che coincide con il centenario della nascita di Testori.
I latinisti ricorderanno che regredior è verbo deponente, che significa «tornare indietro, ritirarsi, retrocedere». Ed è proprio una sorta di regressione e declino questo spettacolo: uno scavo introspettivo nel presente per giungere al passato alla radice dei propri tormenti, e di disturbi psichici che sconfinano nella parafila. In scena Torquato, un vecchio, un emarginato, un “barbone” di fine Novecento sullo sfondo della Milano spaccona ed edonista, nei paraggi del Duomo.
Lavorio, logorio. Complessità. Ogni essere umano è unico, e la singolarità si esprime anzitutto attraverso il linguaggio. La lingua è identità. E sta in ciò anche la tipicità di Testori, che crea per ciascuno dei suoi personaggi una koinè colorita e vivace. Il suo espressionismo lombardo s’impasta di latinismi, solecismi e neologismi di varia natura. Ne nasce un grammelot brancaleonesco, che scompagina in modo sgraziato e violento, triviale e blasfemo, il presupposto di una parlata fissa.
Un accattone, mezzo matto, mezzo ubriaco. Uno straccione strambo e dinoccolato. I capelli scarmigliati. La barba lunga, bianca, incolta. Gli occhi lucidi, arrossati, affossati. Lo sguardo allampanato. Il viso basso. Il cervello in poltiglia. L’abito logoro. I pantaloni tenuti stretti da una corda cadente. Una cravatta cascante su una camicia slabbrata. Le scarpe lise, impolverate. Trifirò presenta il suo personaggio dentro una scenografia surreale, fatta di pareti di cellophane.
Dietro questo perimetro diafano, nella penombra diffusa, Gianni Carluccio disegna con le luci le finestre di una cattedrale.
Torquato brancola, rantola. Emerge dal suo personalissimo sottosuolo. Si avvicina. Torquato è un’ombra. Attraversa la scena come una bestia in cerca della tana, di requie, forse di una preda. O forse è proprio lui, Torquato, la preda.
E che cos’è quella croce rabberciata in mezzo al palco, che pende rasoterra da una carrucola, due assi di legno in croce, spigolose, grezze, con una sorta di cappio che fa da contrappeso?
Un pavimento dissestato, anch’esso plastificato, tra muffe e pozze di liquido giallo. Un bancone da chiesa scrostato. Una sedia laterale sgarrupata.
Torquato rovista nella miseria; Trifirò rovista nel mestiere dell’attore accumulato negli anni. Dà vita a un clochard scalcinato e onirico. Torquato è un relitto beckettiano pazzo di solitudine, intriso di frenastenia e schizofrenia.
Tra dolore e turpiloquio, maledicendo le ingiurie degli anni, Torquato farfuglia un tormento che non è mai vittimismo. Lo stiamo ad ascoltare come fanno i passanti con gli ubriachi smarriti nei loro soliloqui, irrigiditi nel loro delirio: chi passa oltre distrattamente, chi si fa una risata, chi s’impietosisce, chi prova a dire una parola di conforto, chi si ferma un minuto di più; e avrebbe voglia di dargli un abbraccio.
Sostiamo davanti a Torquato. Perché il Cristo che manca da quel crocifisso è proprio lui, con lo sguardo fissato tra i fumi della scighera.
Bravissimo Trifirò a dare un involucro alla materia ostica di Testori, a bruciarne la lingua e ricomporla, facendola rinascere dalle sue ceneri, restituendo identità e dignità agli scarti.
Sorrisi e lacrime. Un lavoro che unisce laidezza e candore, colpa e redenzione. Dopo “Edipus”, con “Regredior” Trifirò riporta in scena Testori estraendone le viscere, quell’intruglio di carne, sangue e midolla. Dimostra cosa voglia dire avere un rovello, a dispetto del teatro facile che strizza l’occhio all’intrattenimento. Il suo vagabondo è un’alchimia d’ilarità e sconforto, gentilezza e perversione. È soprattutto un monito alla città sorda e schizzinosa, perbenista e disumana, dove la povertà è una colpa e gli emarginati un fastidio da relegare in un recesso di solitudine.
In scena fino al 2 aprile.
REGREDIOR
di Giovanni Testori
drammaturgia e regia Roberto Trifirò
con Roberto Trifirò
scene e costumi Gianni Carluccio
produzione Teatro Out Off
spettacolo inserito nell’abbonamento Invito a Teatro
durata: 1h 20’
applausi del pubblico: 3’
Visto a Milano, Teatro Out Off, il 18 marzo 2023
Prima assoluta