Renato Sarti, storico fondatore e direttore dal 2002 del Teatro della Cooperativa che ha sede nella periferia milanese di Niguarda, è anche autore e regista di molti spettacoli entrati nella storia del teatro italiano: “Mai Morti” e “La nave fantasma” con Bebo Storti; “Muri” e “Gorla fermata Gorla” con Giulia Lazzarini; “Goli Otok” con Elio De Capitani, per il Teatro dell’Elfo; “Matilde e il tram per San Vittore” con Maddalena Crippa e Arianna Scommegna, spettacolo ospitato per due stagioni al Piccolo Teatro di Milano, e ultimamente “Il rumore del silenzio”, testo dedicato a Piazza Fontana nel cinquantenario della strage, con Laura Curino.
Sarti ha una lunga e gloriosa storia dietro le spalle: si forma con Giorgio Strehler al Piccolo Teatro di Milano e all’Elfo. Nel 1985 è uno dei “Comedians” (regia di Gabriele Salvatores).
Nel 1991-92 Strehler mette in scena un suo atto unico, “Libero” e l’anno dopo Massimo Castri è regista del suo testo “Ravensbrück”, con Valeria Moriconi.
Nel 1995, nella Risiera di San Sabba di Trieste, è autore e regista de “La memoria dell’offesa”. Tra gli interpreti lo stesso Strehler, Paolo Rossi, Moni Ovadia, Omero Antonutti…
Per la sua attività e per quella del Teatro della Cooperativa ha conseguito numerosi riconoscimenti e premi. Klp lo intervistò nel primo lockdown, per confrontarci insieme su un 25 aprile passato in isolamento.
Oggi invece con lui vogliamo parlare di teatro del passato e della periferia che conosce così bene…
Giorgio Strehler, sul Corriere della Sera del 22 agosto 1990, scrisse: “Renato Sarti, giovane autore che vince premi su premi, indegnamente massacrato da una parte dell’intellighenzia teatrale milanese”. Era vero?
Ma certo che era vero, e sei il primo critico teatrale che mi fa questa domanda.
E perché lo volle scrivere?
Fece quella affermazione perentoria perché ne era convinto, e la mia interpretazione è la seguente: l’anno prima Strehler, con grande eco sui media nazionali, aveva programmato “Spazio parola”, una rassegna di pochissimi nuovi autori italiani, in cui io ero stato inserito con “Libero”, un mio atto unico. Il Maestro l’aveva organizzata per “recuperare” la poca attenzione che, sino ad allora, aveva prestato alla nostra drammaturgia contemporanea? Forse. Sta di fatto che, al di là dell’apprezzamento o meno del mio testo in sé (che però ottenne molti consensi da gran parte della critica autorevole di allora, da Odoardo Bertani a Maria Grazia Gregori, mentre Giorgio Polacco mi definì addirittura “Il Mamet italiano”…), Giovanni Raboni e soprattutto Franco Quadri non gradirono quella operazione e “pettinarono con i sassi” il sottoscritto.
Quel battesimo con la candeggina non agevolò il prosieguo della mia “lunga e gloriosa carriera”, come la definisci tu. Sicuramente mi ha fortificato, e ho imparato fin dai primi passi, come autore, a dare valore soprattutto al significato profondo di questo meraviglioso lavoro.
Ho trovato lo stimolo e le motivazioni a scrivere quando mi sono immerso nello studio di alcune tematiche a me care e ho cercato di trovare una strada per tradurle teatralmente.
In questo percorso ha giocato un ruolo fondamentale l’attenzione e la vicinanza del pubblico che mi ha sostenuto.
Credi di aver subito qualche ingiustizia?
Certo che sì, ma fa parte del gioco, e penso non interessi a nessuno. Il lavoro è la parte più grande della nostra vita, non la più importante. A fatica ho imparato a guardare il 10% del bicchiere pieno e non il 90% vuoto, anche perché quel bicchiere è in frantumi.
Nel 2002 hai creato nella periferia milanese il Teatro della Cooperativa. È stata una scelta quella di aprire un teatro in periferia?
Diciamo che non è stata una scelta ma un confluire naturale d’intenti e un riconoscersi in alcuni valori. Da una parte quelli della Società Abitare (una storica cooperativa di abitazione fondata nel lontano 1894), con tutto il suo patrimonio secolare fatto di solidarietà, di lotte operaie e contadine, di fabbriche, di avanguardie sindacali; dall’altra parte il mio percorso teatrale che man mano si era impregnato di storia, a cui mi ero appassionato fin ai tempi dell’università. Arrivai a Niguarda nel 2000, il 24 aprile, giorno in cui il quartiere ricorda i suoi tanti martiri. La sala era dedicata a Gina Bianchi, nome di battaglia Lia, partigiana trucidata dai nazisti il giorno prima della Liberazione, vicino alle primissime barricate milanesi erette a due passi dal teatro. Era la mia storia e la loro che si incontravano. Quel giorno, vedendo questo salone chiesi: “Cosa fate in questo spazio?”.
Quando i responsabili della cooperativa risposero: “Praticamente niente”, si accese la scintilla. Dopo un periodo di rodaggio, durato più di un anno, nel gennaio del 2002 il Teatro della Cooperativa era nato. E siamo ancora qui.
Quali strategie hai usato per avvicinare quel pubblico?
Non è facile portare a teatro il pubblico delle periferie, per problemi economici e a causa dell’invasione televisiva di questi ultimi trent’anni. Abbiamo quindi elaborato diverse strategie di avvicinamento, partendo da corsi, laboratori e incontri nelle scuole limitrofe e con le tante associazioni attive nella zona, biglietti di accesso ridotti per gli abitanti del quartiere e soprattutto una modalità innovativa di coinvolgimento posta in essere da tanti anni: Il Teatro nei Cortili.
Se gli abitanti non vengono da noi, andiamo noi da loro. È stato un vero successo che viene riproposto ormai specialmente in estate, con le sale chiuse.
A tutto questo si aggiunge il fatto non secondario di aver scelto di affiancare, nella programmazione delle stagioni, agli spettacoli di impegno politico e sulla memoria storica, altri di un certo tipo di teatro comico, con talenti come Paolo Rossi, Debora Villa, Alessandra Faiella, Rita Pelusio, la Filarmonica Clown, Sergio Patrucco, Flavio Oreglio, Walter Leonardi, Flavio Pirini, Ippolita Baldini, Antonello Taurino, Massimiliano Loizzi e tanti altri. Se non fosse stato per il Covid, in gennaio avremmo ospitato anche Andrea Pennacchi.
È cambiata in questi vent’anni la periferia?
Sicuramente è cambiata. E non tutte vivono le stesse criticità. Quella di Niguarda ha caratteristiche particolari, con un humus declinato al sociale, grazie anche alla presenza delle cooperative di abitazione che fanno da collante. I caseggiati sono nati tutti con spazi autogestiti dagli stessi inquilini all’interno dei quali si svolgono attività formative, ludiche, oltre che di sostegno alle persone con fragilità. Alla luce di questi fenomeni complessi, di non facile gestione – e in cui la cultura può svolgere un ruolo determinante – c’è la necessità di ripensare alla periferia come luogo di comunità, di insieme, di avvicinamento di abitanti, oltre che di etnie. Solo così, con l’indispensabile apporto delle istituzioni e delle amministrazioni, sarà possibile una sua rigenerazione urbana e sociale.
I tuoi spettacoli, da sempre, sono stati di natura fortemente politica nel senso nobile del termine. Perché?
Sono triestino. Aver scoperto solo intorno ai 16/17 anni (quando frequentavo l’Istituto d’Arte, “pieno di ragazzi strambi”), che a poco più di un chilometro da casa mia c’era un posto che si chiamava Risiera di San Sabba (unico lager nazista in Italia con forno crematorio, unico in Europa situato all’interno di una città, a fianco dello stadio) è stato qualcosa che mi ha segnato. Nessuno ci aveva raccontato niente. Tutto ci era stato celato.
Con il tempo ho elaborato il convincimento che quella non era una “dimenticanza”, ma un’opera di rimozione ben più vasta portata avanti scientemente. Un furto nei confronti di tutta la mia generazione. Eravamo stati defraudati di una parte fondamentale della formazione umana, sociale e politica: la conoscenza del passato recente.
Negli anni ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare ex deportati politici e diversi partigiani, prima triestini, poi di tutta Italia (collaboro da più di trenta anni con l’ANPI e con l’Associazione Ex Deportati, di cui mi onoro di far parte del direttivo nazionale). Tramite le loro terribili testimonianze dal di dentro e dal basso, ho compreso quello che aveva vissuto, con la guerra e la dittatura, la generazione dei nostri genitori. Fra non molto – speriamo più tardi che mai! – per un mero fatto anagrafico i testimoni diretti di quella tragedia, non ci saranno più. Ritengo perciò indispensabile che altri se ne facciano carico. Fra questi, oltre alla scuola, al cinema, alla musica, ai libri, ai fumetti, ai nuovi mezzi di comunicazione, anche il teatro potrà e dovrà fare la sua parte per dare un apporto importante.
Qual è il teatro che più ami?
Io avevo vissuto in pieno la famosa Biennale del 1975. Anche se lo spettacolo che mi piacque di più fu “L’Age d’or” di Ariane Mnouchkine, Théâtre du Soleil, che si basava sulla Commedia dell’Arte, vidi il meglio dell’avanguardia teatrale mondiale, l’Odin Teatret di Eugenio Barba, il Living Theater, Caffè La MaMa, Meredith Monk, Giuliano Scabia, gruppi di ogni tipo, ebbi la fortuna di essere ammesso ad un seminario a Mestre con Ryszard Cieslak, l’attore icona di Grotowski. Fu qualcosa di sconvolgente; gli spettacoli e l’atmosfera intorno.
Però… però con il tempo, avendo avuto l’immensa fortuna di: A) di lavorare con Strehler al Piccolo (e con attori come Giulia Lazzarini, Gigi Pistilli, Tino Carraro, Gianni Santuccio, che per me rimane a tutt’oggi l’attore più moderno in Italia; B) di aver fatto parte per parecchi anni della straordinaria palestra/fucina del Teatro dell’Elfo (con Bruni, De Capitani, Salvatores, Alberti, Bisio, Catania, Orlando, Rossi, il sodale di una vita Bebo Storti, Palladino); C) di aver visto e partecipato a spettacoli come “L’Arlecchino servitore di due padroni “, “Il campiello” e “La Tempesta di Strehler”, “Le mille e una notte”, “Il sogno” di Shakespeare e “Comedians” di Salvatores, “Visi noti sentimenti confusi”, “Nemico di classe” e “L’Isola “di Athol Fugar, con De Capitani/Bruni, “L’Istruttoria” del compianto Gigi Dall’Aglio etc etc…
Dopo tutto ciò ho compreso che il teatro che sentivo più vicino e volevo fare era un teatro di parola, popolare, sia tragico che comico. E qui permettimi di sottolineare il mio amore per il Comico, rispetto soprattutto all’atteggiamento snobistico con cui certa intellighenzia ha sempre trattato il mondo dei comici (ma che se poi un Rossellini, un Pasolini o un Fellini chiamavano in un loro film un Fabrizi, un Totò, un Ingrassia, dopo averli massacrati per una vita, questi cialtroni diventavano improvvisamente dei geni! Ma ne parleremo nella prossima puntata).
Di conseguenza l’infatuazione per l’avanguardia, la ricerca, il metateatro, il performativo man mano è scemato. Mi si confà di più quel teatro che si pone l’obiettivo di mettere in scena spettacoli per un pubblico variegato, che chiede semplicemente – piangendo o ridendo – di emozionarsi ragionando o ragionare emozionandosi. Senza voler fare della facile demagogia, un teatro che si sposi con il luogo dove siamo, frequentato sia da gente del quartiere, sia che provenga dalle zone limitrofe, sia dal centro. A volte, dopo aver visto uno spettacolo, mi viene in mente un detto triestino: “Son andà baul e son tornà casson”, che significa sono andato baule e sono tornato cassone. Vuoto ero e vuoto sono rimasto. Ecco, io vorrei semplicemente che non succedesse questo, ma che il dramma, o la commedia a cui uno spettatore assiste lo aiuti a riflettere e ad acquisire strumenti che gli permettano di comprendere meglio la realtà che vive quotidianamente. E proprio perché il teatro è un luogo indispensabile per il confronto, auspico vivamente che chi di dovere (istituzioni in testa) tenga in vita e sostenga questo settore particolarmente precario e che alle maestranze coinvolte siano garantiti continuità e trattamenti economici adeguati.
Se dovessi scrivere un testo, dopo il Covid, di che urgenze parlerebbe?
Un testo l’ho già scritto, e avrei dovuto portarlo in scena proprio a giorni, ma non posso rivelarti niente di più di quanto già annunciato pubblicamente, altrimenti rischio che la responsabile dell’ufficio stampa mi tagli la lingua per darla in pasto al suo micio. Il titolo di questo nuovo lavoro sul dramma che stiamo vivendo è “Vairus – la spada di Damocle”. È una sorta di strigliata dello stesso virus, nella speranza che il genere umano si dia una regolata rispetto alla folle corsa allo spreco, al consumismo forsennato e alla devastazione ambientale.