Stefano Ricci e Gianni Forte, per tutti Ricci/Forte, sono stati designati, dopo Antonio Latella, alla direzione artistica della Biennale Teatro a Venezia per il periodo 2021-2024.
Per chi ne segue la poetica e la carriera fin dai primordi, è stata la conferma di un percorso artistico di eccellenza, fuori dagli schemi, che si è caratterizzato per un teatro sempre diverso ma dai caratteri riconoscibili nel tempo, utilizzati per indagare il contemporaneo spesso attraverso la tradizione, seppure stravolta nelle sue forme estetiche.
Discorso analogo è avvenuto con l’opera, cui si sono avvicinati negli ultimi anni, con regie sempre spiazzanti ma di grandissima suggestione e profondità: “Turandot” di Puccini al Macerata Opera Festival (Premio Abbiati 2018), “Le Château de Barbebleu” di Bartók e “Die Glückliche hand” di Schoenberg al Teatro Massimo di Palermo (2018), “Nabucco” di Verdi al Teatro Regio di Parma (2019) e, di recente, “Marino Faliero” al Teatro Donizetti di Bergamo, che verrà trasmesso su Rai 5 il 20 novembre dalle 19,30.
Tornando agli esordi, il loro primo spettacolo (e successo) arriva nel 2006 con “Troia’s Discount”; l’anno seguente debutta il primo dei sette episodi del progetto “Wunderkammer Soap” (da Christopher Marlowe), che si concluderà nel 2011 al Romaeuropa Festival. Seguiranno “Ploutos” (da Aristofane, premio della Critica come migliore drammaturgia alla Biennale Teatro 2008), “Macadamia Nut Brittle”, lo spettacolo a noi più caro, vera summa della loro poetica di quegli anni.
E poi ancora, ma non le nominiamo tutte, le ultime performance: “Still Life” (2013), “Darling. Ipotesi per un’Orestea” (2015), “TroiloVSCressida” (2017), “La ramificazione del pidocchio” e “PPP Ultimo inventario prima di liquidazione”, entrambi sull’universo poetico di Pier Paolo Pasolini, oltre a “Easy To Remember”, omaggio alla poetessa russa Marina Cvetaeva, del 2017.
Nel 2015 scrivono il libretto e dirigono “A Christmas Eve”, che debutta al Festival di Spoleto. Mentre quest’anno hanno ideato, scritto e diretto “Hic Sunt Leones”, un programma in cinque puntate per Rai3.
Li abbiamo incontrati in occasione di quello che, a tutti gli effetti, è un ulteriore riconoscimento della loro carriera.
Dopo Latella eccovi a dirigere la Biennale Teatro. Ma qual è la vostra idea di teatro?
Il senso del teatro, oggi più che mai, è di difendere il diritto a parlare di chi non ha voce, disintossicare attraverso una verità ricostruita, per evitare di essere al servizio di governanti famelici – in questo primo scorcio di secolo in saldo – che ci mitragliano con la loro cialtroneria aggredendo qualunque “sguardo e respiro altro”; mantenere accesa la fondamentale facoltà della critica e del pensiero liberamente espresso. Amplificare il suono del dubbio, anche attraverso una direzione artistica, non potrà che essere salutare e salvifico. Per l’uomo, ancor prima dello spettatore.
In un Paese guasto e in tempi di anemia emotiva, abbeverandoci alla sua fonte e sfamandoci con quel disincanto smagrito e straziato, ci lasciamo ninnare dagli abbracci orfici della poesia – danza e musica del pensiero – che ci allunga la vita distraendoci dalla morte. Attraversiamo le dissonanze letterarie altrui per ritrovare i nostri accordi.
Quali sono i vostri autori e registi di riferimento?
Ammiriamo i percorsi dal fascino ipnotico di alcuni colleghi pur con la difficoltà di instaurare rapporti approfonditi, visto il poco tempo a disposizione, impegnati come siamo tutti in un lavoro che ci costringe ad un perpetuo nomadismo. Ma l’attenzione intransigente nei confronti del ventaglio cromatico e visionario del “verbo” teatrale, l’onestà intellettuale, il potere etico del segno scenico e il rigore dolente nell’insegnamento di Luca Ronconi restano per noi imprescindibili.
Vi siete chiesti perché siete stati scelti voi?
La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro. È un processo naturale, come l’alternarsi delle stagioni, che produce un effetto reale e cadenzato su ciò che già esiste.
Ma come lavorano Stefano Ricci e Gianni Forte? Chi fa cosa?
Fabbricare indagini, questa è la leva, il fulcro sul quale abbiamo edificato il nostro apprendistato concettuale a quattro mani. Si partecipa ad uno stato onirico che possa permetterci di avvicinare la materia il più possibile alla nostra ugola. Un commutatore etico che si è innescato trent’anni fa, dopo il nostro incontro. Un artigianato che abbraccia l’idea del mare aperto: uno al timone, l’altro alle vele. Sodali d’avventure, senza sussulti, abbiamo da sempre abbandonato l’apparente placidità della terraferma. Lontani dagli intellettualismi “chaise longue”. Puntando la rotta tra le spume del sogno, della fantasia e del riciclaggio morale.
Da tempo vivete a Parigi. Perché voi, come anche Castellucci, lavorate ormai soprattutto all’estero e poco in Italia?
Il tempo presente è europeo e non italiano. È un altro tempo, un altro battito, e viaggia con un ritmo meno anacronistico. In assenza d’ossigeno, in questa presente dispnea espressiva italica, in Francia riusciamo a non boccheggiare. Non si tratta di abbandoni ma di riconciliazioni con la propria emergenza. Una lucidità critica sulle sbarre di un condizionamento comportamentale che ci allontana dai nostri propositi, allacciata anche alla suppurazione di una ferita moralistica che sgorga pus in continuazione, impedendo di osservare la complessità di un paio di ali in revisione.
In Italia non interessa a nessuno la creazione, né porre l’attenzione su una progettazione artistica: in un momento così debilitante da un punto di vista anche economico, gli operatori si stanno trasformando in mercanti, e nel commercio contano i numeri, non la qualità di quello che viene elaborato. Questo è un processo involutivo, depauperante, che non porta da nessuna parte.
Da cosa vorreste che uno spettatore capisse che sta vedendo un vostro spettacolo? Cosa vorreste comunicargli?
Attraverso dei bagliori di speranza che illuminano l’oscurità solo per una manciata di secondi, sufficienti per comprendere la possibilità di lasciare delle impronte. Come le lucciole di Pier Paolo Pasolini, ad indicare un baluginio diffuso e costante nel gioco della sopravvivenza, ogni singolo spettatore – non più un pesce rosso nell’acquario umano in cui si è destinato con le proprie mani e la sua mancanza di coraggio – si riconoscerà in un capitano coraggioso, invitato ad uscire dal sottopassaggio vitale in cui si è trincerato; un protagonista pronto a testimoniare insieme a noi il malessere che lo sostiene, capace di spostare l’ombra e produrre luce, svelando alla sua stessa retina un’anatomia di sentimenti e una capacità di condivisione che erano nascosti dentro di lui e che aveva dimenticato di possedere.
Turandot, Nabucco, Bartók e Schoenberg; ora Marino Faliero. Cosa vi interessa dell’opera lirica: renderla contemporanea, sviscerarne i sottotesti o altro ancora?
Comprendere non tanto il “come” mettere in scena un’opera ma il “perché”. Restituire ad una architettura musicale del passato la capacità di parlare a noi, oggi, per non inabissarci nelle paludi di un quotidiano melmoso e friabile ma per risalire verso quell’incantamento gioioso che avevamo e che abbiamo smarrito. Ascoltare il rumore del ghiaccio che si spacca, il gemito di un’umanità di anime in fretta e di anonimi utenti che resta al di sotto della civiltà dominante. Semantizzare ciò che si vede ed esprimerlo con un proprio personale codice, privi di qualunque spirito trasgressivo ma sospinti unicamente da una volontà di raccontare in punta di spada, senza prudenza o sudditanza, senza consolazione o, come dicono i francesi, con un lyrisme aride, un progetto poetico in cui ci riconosciamo, consegnandolo al pubblico con onestà per stabilire una conversazione privata con lui: un dialogo sottopelle di tenue dolcezza che si sfronda di qualunque orpello lasciando così uno scheletro nutriente.