Rimanete curiosi! Agnès Limbos e la scoperta del Teatro d’Oggetti

Agnès Limbos in "Conversation avec un jeune homme"
Agnès Limbos in "Conversation avec un jeune homme"

Anche quest’anno la rassegna di Teatro di Figura Incanti dà vita al PIP, Progetto Incanti Produce, attraverso un bando aperto ancora fino al 31 maggio rivolto a studenti e professionisti del Teatro di Figura di tutto il mondo.
Grazie a borse di studio che coprono le spese di vitto e alloggio dei partecipanti durante il soggiorno a Torino, i selezionati potranno seguire un workshop intensivo diretto da un artista ospite di fama internazionale, presentando un lavoro finale all’interno della programmazione del festival, che si terrà a Torino dal 4 al 10 ottobre.

Negli anni si sono succeduti nella direzione del progetto Eva Kaufmann, Neville Tranter, Frank Soehnle, Gyula Molnar, Andrew e Kathy Kim (Thingumajig Theatre), Duda Paiva, Max Vandervorst e Nori Sawa.

Il PIP 2016 verrà invece diretto da Agnès Limbos della compagnia di Bruxelles Gare Centrale, a cui abbiamo rivolto alcune domande sul Teatro d’Oggetti e sul Teatro di Figura in generale.

Agnès Limbos, lei è considerata una delle fondatrici del teatro d’oggetti. Può raccontarci qual è stato il suo ruolo e il suo percorso creativo in quest’ambito?
Io non mi considero come uno dei fondatori. Nel corso degli anni ho fatto incontri importanti e ho sviluppato questa forma teatrale particolare attraverso i miei spettacoli e altri progetti, e dal 1984 è diventato un movimento teatrale.
Il termine “teatro d’oggetti” è stato formulato da tre compagnie francesi (Le théâtre de cuisine, Le vélo théâtre e Le théâtre Manarf) desiderose di identificare e dare un nome alla loro forma teatrale ispirata alle arti visive, al teatro e alla manipolazione.
Da allora sono passati 30 anni. E il teatro d’oggetti è diventato una forma specifica nell’ambito delle arti del teatro di figura.
Io mi riconosco pienamente in questa singolare forma, dove l’attore è al centro della scena e manipola oggetti puri. Abbiamo formato, con altri artisti italiani e tedeschi, una vera e propria famiglia di artisti. Ci incontriamo regolarmente da 30 anni per fare laboratori di ricerca, masterclass, scambi…
C’è tanto teatro d’oggetti quanti autori che creano forme derivate da questo ambito. Da molto tempo gli artisti giocano e manipolano oggetti, materia. Io sono convinta che l’uomo preistorico – manipolando ossa, pezzi di legno, disegnando la figura e il corpo con del carbone, gridando per farsi notare o far ridere i suoi simili – faceva già teatro d’oggetti.
Fin da bambina sono stata attratta dagli oggetti: oggetti comuni, spesso obsoleti, che rivelano il loro potenziale per il gioco teatrale e poetico. La mia prima ispirazione per creare uno spettacolo viene da loro: oggetti raccolti da vendite di garage, o incontri casuali.
Col passare del tempo ho creato una sorta di “archivio di oggetti” da cui attingere la materia prima del mio teatro. Questi oggetti, che già contengono una storia, li scelgo per il loro potere evocativo e per l’emozione che trasmettono. Non li trasformo in personaggi, io non animo marionette.

Scrivere per il teatro di figura richiede un approccio diverso rispetto al lavoro con gli attori. Il lavoro di Gare Centrale coniuga questi due mondi apparentemente distanti. Qual è il segreto del vostro percorso?
Io scrivo dialogando con l’oggetto. Parlo del mio teatro d’oggetti. Il mio linguaggio teatrale è molto personale, unisce al teatro d’oggetti le tecniche teatrali dell’attore fisico (danza, clown, mimo…). 
Giustappongo oggetti che non hanno alcuna relazione tra di loro, ed è cercando associazioni di idee che produco effetti drammatici. Sistemare un lupo di plastica accanto a una statuetta di sposi può dar luogo ad un senso di pericolo o minaccia.
Sono straordinari esperimenti teatrali in cui esseri umani, statuine e oggetti hanno lo stesso valore, e dove semplici suoni e gesti quasi insignificanti evocano grandi sentimenti.
Il “mio teatro” s’inscrive nella corrente surrealista, in particolare quella dei surrealisti belgi. Questi ultimi, a differenza dei surrealisti francesi che hanno sottolineato la meraviglia, il sogno o la magia, hanno messo in evidenza «il sovvertimento sistematico, la messa in pericolo del linguaggio e l’esasperazione della banalità».
Il parallelismo tra figure e attori produce un effetto visivo simile al principio della scrittura cinematografica: lo sguardo collega due immagini in scale differenti, come due fotogrammi di una sequenza video.
Così, per costruire la scena in tutte le sue dimensioni, si guardano alternativamente gli oggetti e i volti degli attori (“primo piano”) come in un montaggio cinematografico.
I livelli del segno sono multipli: gli oggetti (la visione d’insieme), le espressioni degli attori (l’espressione delle emozioni), le parole (la narrazione, i pensieri dei personaggi), i gesti degli attori (la realtà prosaica dell’oggetto), gli sguardi degli attori tra loro e verso il pubblico (la distanza e il commento).

Il teatro d’oggetti è un linguaggio che fatica ad affermarsi in Italia, nonostante la presenza di maestri come Giulio Molnar. Qual è la realtà in Belgio?
Penso che ci siano grandi creatori in Italia. C’è stato un momento in cui il teatro d’oggetti era protagonista di molti festival, e alcuni continuano questo percorso. Non conosco bene il contesto italiano, ma Giulio Molnar è un punto di riferimento per tutti.
Io tengo corsi in diverse scuole e università (ESNAM a Charleville, Università di Stoccarda…), corsi di perfezionamento in tutto il mondo. C’è un grande entusiasmo dei giovani professionisti per questo linguaggio. Trovano una grande libertà di creazione sia personale che nell’allestimento dei classici (Shakespeare, Flaubert, Victor Hugo su un tavolo con gli oggetti, da soli o a due). Allo stesso tempo, vediamo sempre più artisti che fanno “teatro d’oggetti”, ma io non riesco a trovare nelle loro creazioni l’essenza di questo teatro. C’è molta banalità, imitazione, e l’uso dell’oggetto come una marionetta, ed è un vero peccato.

Cosa pensa di un progetto come il PIP e come pensa di affrontare quest’esperienza?
Credo che questo progetto sia importante e non vedo l’ora di incontrare i giovani professionisti per creare con loro una forma unica.
La mia proposta sarà di partire da un estratto di Eugène van Itterbeek, da “Diario rumeno”, per realizzare insieme un lungometraggio teatrale: “Sono un figlio della pianura, vivo a livello del suolo, una regione in cui, dicevano i soldati romani, il cielo tocca la terra, paese di nebbia e cielo grigio, dove le persone fissano gli oggetti, li guardano come se fossero un paesaggio”.

Un consiglio finale per i giovani artisti del teatro di figura italiano?
Essere veri e sinceri, osservare il mondo e interrogarsi. Rimanere curiosi e sperimentare nuove forme senza dimenticare le tradizioni. Mettere le mani in pasta e non intellettualizzare. E non scoraggiarsi!

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