“Non chiedere al tuo Paese cosa può fare per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo Paese”. Questo può essere considerato come un degno epilogo finale. Un’assunzione di responsabilità che serve molto per chi decide di intraprendere un percorso teatrale, così come qualsiasi altra carriera professionale, si potrebbe dire quasi con certezza.
In questo terzo ed ultimo capitolo del suo report sul Prishtina International Theatre Festival e sul teatro nei Balcani, Nicolò Sordo rivela la rosa dei vincitori ma, soprattutto, svela il significato e che cosa rappresenta il Kosovo per lui, che è un giovane autore che vive il proprio tempo tra sfide e opportunità. Con la curiosità e l’umiltà di chi riesce a trovare un senso e frammenti di risposte esistenziali nei posti più impensabili, per strada, nei ristoranti tipici, ovunque. Sordo rivela, con il suo stile unico, il senso della vita, che può nascondersi in una camicia hawaiana.
A noi non resta altro che leggerlo e domandarci se vale anche per noi.
Don’t ask what your country can do for you – di Nicolò Sordo
Abbiamo visto la call sulla pagina Facebook del Prishtina International Theater Festival e abbiamo partecipato con “I D O N T W A N N A F O R G E T” di Cie Bressan/Romondia, una pièce sulla figura di Nan Goldin e su “The Ballad of Sexual Dependency”.
Quando ci hanno selezionato fra le centinaia di proposte pervenute, abbiamo scoperto che è un festival attivo dal 2017, giunto ora alla 6^ edizione, a carattere competitivo.
Vi dico già che abbiamo perso, così non stiamo qui a puntare sulla suspense.
Il loro motto è: “Non chiedere al tuo Paese cosa può fare per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo Paese”.
È l’unico festival teatrale del Kosovo ed è già molto ben considerato a livello internazionale.
Il PITF inizia il 10 maggio con la Spagna: “I left” dell’Institut del Teatre de Barcelona, con la regia di Enric Lizano Sanz e Aida Zumajo Flores, ma ce lo perdiamo perché arriviamo la sera dopo.
L’11 maggio è la volta della Macedonia del Nord con “The M word” diretto da Fatos Berisha, che definisce il lavoro “self-made” e di teatro urbano, e ne apprezzo il carattere rock e underground.
Il 12 maggio andiamo a vedere “Andorra”, testo di Max Frisch, della compagnia kosovara Teatri i Qytetit “Bekim Fehmiu” – Prizren diretto da Kushtrim Bekteshi, uno degli spettacoli più vecchi che abbia mai visto, e mi sorprende parecchio quando conosco il regista, che invece è giovane.
Il 13 maggio tocca a noi con “I d o n t w a n n a f o r g e t”. Halil Matoshi, critico della giuria, ci regala una bellissima recensione del lavoro. Quattro persone che vengono a vederci sanno l’italiano.
Il 14 maggio vediamo “Iphigenia” di Korifej Teatar (Montenegro) con la regia di Zoran Rakočević. In scena un ensemble di attori molto forti e un’idea credibile di come fare una tragedia.
Il 15 maggio abbiamo il nostro aereo per tornare, che rischio di perdere per l’after party con gli attori del Montenegro. Non riusciamo a vedere “Muslimani” di Teatri Kombëtar i Kosovës (il Teatro Nazionale del Kosovo), diretto da Enver Petrovci.
Il 16 maggio c’è la cerimonia di premiazione: il premio principale di PITF 2022 (“Miglior attore”) va a Enver Petrovci di “Muslimani” (Kosovo). Il premio come “Miglior regista” va a Fatos Berisha con “The M word” (Macedonia del Nord). Il premio per il miglior spettacolo va a “Iphigenia” di Zoran Rakočević (Montenegro). Il premio per il miglior spettacolo (sia della giuria studentesca che della giuria ‘media’) va ancora a “Muslimani”. Il premio per la migliore attrice non protagonista va a Jelena Dukic di “Iphigenia” (Montenegro). Menzione speciale per “I left” di di Enric Lizano Sanz e Aida Zumajo Flores (Spagna).
Gut
La fine della storia è che sono in hangover su un aereo della Turkish Airlines diretto a Istanbul.
Ci sono io – camicia hawaiana – vicino al finestrino, che provo a guardare “C’mon C’mon” con Joaquin Phoenix nello schermo davanti a me, ma ho troppa nausea ed è meglio se me ne sto tranquillo.
L’after party è stato impegnativo e ho rischiato di perdere l’aereo perché mi sono accorto al check-in di aver dimenticato il telefono in camera.
L’ultima immagine che ho del Kosovo è un tassista che mi chiede: “Kosovo?”
E si risponde da solo: “Gut”.
E di nuovo mi chiede: “Italia?”
E di nuovo si risponde da solo “Gut”, e dentro di me prego che faccia presto a tornare all’albergo e poi a riportarmi in aeroporto in questa mattina di un torrido maggio continentale.
Per un attimo ho la sensazione che non me ne andrò mai da qui, e tuttora continuo ad avere la sensazione di non essere mai tornato. Mentre Moamer mi apre la porta e salgo in camera, lui piscia al lato della strada.
Ora capite perché metto spesso la camicia hawaiana: è una sorta di sorriso interiore.
Ho capito cos’è per me il Kosovo, per me e solo per me, che per gli altri non ho mai parlato e non parlerò mai: il Kosovo è me quando metto la camicia hawaiana. È un posto triste dove non vivrei, dove l’America e il poter comprare cose danno la stessa illusione di felicità che dà a me quando trovo una bella e colorata camicia hawaiana.
Ho la sensazione che se agli abitanti del Kosovo dessero il passaporto sarebbe tipo “aprite le gabbie”, e rimarrebbero solo quei gruppi di cani randagi rassegnati alla vita così com’è.
Mi ricordo una frase forte che qualcuno si è lasciato scappare all’AAB College, non ricordo dove, forse alla mensa, ma sono sicuro di non essermela immaginata. Chiedevo dei taxi legali e illegali, di come possano convivere pacificamente e nessuno dice niente, di cosa fa la polizia. Qualcuno mi dice, con il sorriso sulle labbra e una VISA in tasca: “Il Kosovo è come il Ruanda”. E subito si crea il gelo e i nostri occhi si rivolgono alla luce bianca che proviene dalla finestra.
Fa un caldo che non si riesce neanche a respirare.
Il nostro hotel, con la pubblicità di un idraulico e materiale per ferramenta, sta gocciolando e si squaglierà presto insieme a noi.
L’odore di pesce dello spaccio vicino invade la strada, mentre mi metto a fissare un disegno di una giostra che si chiama “6 D”. Eppure la sesta dimensione non esiste ancora.
Mentre l’aereo è in volo e dentro di me mi chiedo “Che ci faccio qui?”, spero che il teatro resti sempre una scusa per non trovarsi un lavoro serio (perché mi sento ancora più stronzo e privilegiato dopo alcune cose che ho visto) e una valida alternativa alla delinquenza.
Ripenso ai centri commerciali vuoti alla sera, quando si spengono le luci dentro, ma le luci fuori rimangono a testimoniare che esistono, se no i gruppi di cani se li prendono e diventano una gigantesca cuccia per randagi.
Ho ancora nelle orecchie la musica dell’after party e di Dj Nird, che ha risposto su Instagram alla mia intervista con un’altra domanda: “Why are you asking me this questions bro? Ahahah”.
Ripenso ad Eli, il cuoco del ristorante “Be Happy”. Quando ci siamo salutati, sabato, il giorno prima della nostra partenza, mi ha detto: “Se vuoi io sono qua fino alle 3”. Poi fa una pausa, un’alzata di spalle: “Ma che importa. Io sono sempre qua”.