Il Teatro di Roma ha inaugurato la sua stagione con un evento-monstre incentrato sul lavoro: “Ritratto di una nazione, l’Italia al lavoro”, un progetto di Antonio Calbi e Fabrizio Arcuri, con la regia dello stesso Arcuri.
Sul palco dell’ Argentina sono stati proposti nove quadri, più un prologo, scritto dal premio Nobel Elfriede Jelinek, per cinque ore complessive, prima parte di un’opera che dovrebbe completarsi l’anno prossimo con altri undici momenti, per un totale di venti.
I nove tasselli della prima parte, dalla durata tra i venti e i quaranta minuti, uno per ogni regione, sono stati affidati ad altrettanti drammaturghi, che hanno declinato l’argomento rispetto ad un avvenimento della propria regione, consegnandoli poi ad interpreti diversi tra loro: Marta Cuscunà per il Friuli Venezia Giulia, Davide Enia per la Sicilia, Renato Gabrielli per la Lombardia, Alessandro Leogrande per la Puglia, Marco Martinelli per l’Emilia Romagna, Michela Murgia sulla Sardegna, Ulderico Pesce sulla Basilicata, Vitaliano Trevisan sul Veneto, mentre Wu Ming 2 e Ivan Brentari hanno proposto il loro pezzo indagando le lotte sindacali.
Per Klp hanno assistito ad un evento tanto composito due sguardi diversi, quelli di Mario Bianchi e di Giacomo d’Alelio, differenti per età e sensibilità, che pur nelle differenti impostazioni ci hanno restituito un’impressione simile su questa suggestiva maratona teatrale sul tema del lavoro.
Arriviamo a Roma memori dell’entusiasmo suscitato da un’altra maratona teatrale attraversata da sette giovani drammaturghi: quella latelliana di “Santa Estasi”, percorsa l’anno scorso a Modena, e incentrata sulle suggestioni tragiche della famiglia degli Atridi.
Per “Ritratto di una nazione” il tema è invece la questione del lavoro, in un percorso che dovrebbe trasmetterci una fotografia, seppur parziale, del nostro Paese rispetto ad un tema che la crisi economica ha posto prepotentemente in primo piano.
Usiamo il condizionale (“dovrebbe”) perché, lo diciamo subito, riguardo a questo ambito, l’impressione generale della serata è stata pervasa più da ombre che da luci.
Abbiamo infatti avuto la percezione che ognuno dei progetti presentati navigasse per conto proprio, su avvenimenti troppo particolari, e già per altro avvicinati dal teatro in modo estremamente più organico. Per di più, anche collegati tra loro, non hanno fornito nuove chiavi di lettura della problematica generale trattata, soprattutto in un ‘ottica legata al tempo che stiamo vivendo.
Non per niente, a inizio serata, subito dopo le parole che definiscono l’articolo 1 della nostra Costituzione, fa capolino ancora la citazione del “Quarto stato” di Pelizza da Volpedo.
E non per niente i capitoli che ci hanno meno convinto sono quelli che ci riportano ad un passato in qualche modo già assimilato, come l’episodio che vede Michele Placido, per la verità un poco tentennante nel suo porsi in scena, ad impersonare Giuseppe Di Vittorio, impegnato, con altri comprimari più giovani, in un lavoro di Alessandro Leogrande, sullo sfruttamento dei lavoratori in Puglia, a cui fa rimando una narrazione sulla questione di Taranto e dell’Ilva, o quello di Wu Ming 2 e Ivano Brentani, che affidano a Paolo Mazzarelli, Lino Musella e Filippo Nigro una rievocazione delle lotte operaie alla Breda, quando Sesto San Giovanni era “la Stalingrado d’Italia”, con in scena un inedito Gagarin.
Anche quando l’approccio si fa più contemporaneo, ci pare poco approfondito e scenicamente non del tutto risolto: lo si avverte in “North by North-East” di Vitaliano Trevisan, sul mercato della droga, proposto con evidenti riferimenti alla “Bottega del caffè” di Goldoni; in scena Giuseppe Battiston (alquanto gigione, che si cimenta in due personaggi), Roberto Citran e lo stesso autore.
E’ un approccio evidente anche in “Redenzione” di Renato Gabrielli, sul vacuo mondo dello spettacolo che nasconde in sé lavoro instabile e sfruttamento, qui però portato in scena da un grande Michele di Mauro.
Ma allora è tutto da buttare? Niente affatto! Pur con tutti i distinguo, abbiamo passato cinque ore, nella maggior parte dei casi, di buon teatro, a contatto con artisti difficilmente riunibili in una sola volta.
La forza di questa maratona, oltre che indagare – pur in modo ondivago – il tema trattato, è stata quella di aver visto all’opera attori e artisti di rango che tengono magnificamente le loro parti, nonostante alcune controscene registicamente irrisolte, dovute a più giovani partner.
Ecco allora Maddalena Crippa affrontare da par suo il glaciale monologo della Jelinek, o Arianna Scommegna che, in “Festa nazionale” di Michela Murgia, riveste magnificamente i panni di una donna delle pulizie, rimasta senza marito, morto di tumore, che ingenuamente manifesta contro i detrattori del poligono militare dove lavora in modo precario.
E ancora Francesca Mazza che, nel bel testo di Marta Cuscunà, visto dal suo particolare osservatorio dei cantieri navali di Monfalcone, cerca di raccontare la paura di chi considera gli stranieri ladri di lavoro, utilizzando ironicamente anche la fuga dallo zoo di una tigre del Bengala.
Abbiamo trovato molto gradevoli i Don Camillo e Peppone, statue che rivivono in “Saluti da Brescello” nel bel testo di Marco Martinelli, con gli autoironici Gigi Dall’Aglio (Peppone) e Gianni Parmiani (il pretone), che raccontano l’infiltrazione della ‘ndrangheta calabrese nell’Emilia Felix.
Ma forse le cose migliori sono venute dai due monologhi della serata: quello di Ulderico Pesce, che in modo forte ed emozionante ci porta nella sua Lucania invasa in modo contraddittorio e doloroso dall’Eni e dal suo oro nero, e quello bello e intenso di Davide Enia, “Scene dalla frontiera”, sui naufragi di Lampedusa, visti attraverso gli occhi di un palombaro, proposti per il teatro finalmente in modo desueto da chi sta in mezzo ai rottami e agli esseri umani che affondano.
I dieci racconti sono intervallati e accompagnati da una band rock, i Mokadelic, issata al piano superiore di una struttura metallica mobile, che evoca felicemente la fabbrica ma anche certo teatro politico di tanti anni fa, ancora ben impresso nella memoria.
Un’opera quindi di per sé lodevole, che ha visto unire insieme in modo proficuo per un progetto comune artisti di diverse generazioni, ma che a causa forse della fretta (del poco tempo) avrebbe ancora bisogno di maggior cura e preparazione.
Apprezzando Calbi e Arcuri, siamo sicuri che la seconda parte di “Ritratto di una Nazione” verrà realizzata con le opportune correzioni e aggiustamenti.
Mario Bianchi
Si staglia, proiettata su di un grande schermo bianco che gravita sul proscenio, la scritta che sottolinea gli intenti ideali e di eccellente volontà di questa che è annunciata (e si dimostrerà a tutti gli effetti) un’opera fiume che scorrerà e danzerà fino all’1 di notte.
È l’articolo primo della nostra Costituzione, noi patria della Lex per antonomasia, che lapidariamente scolpisce l’incipit delle basi fondanti della nostra Res Publica, e qui di quest’atto la cui tesi è ben chiara: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
La curiosità, mista molto all’aspettativa, carica lo sguardo, anche perché i nomi coinvolti come autori dei testi sono di peso, nella supervisione dell’occhio attento di Antonio Calbi e nel tratto registico inventivo di Fabrizio Arcuri – i due squadra già collaudata per un altro Ritratto riuscito, quello della “Nascita di una Capitale” – , Roberto Scarpetti chiamato al raccordo drammaturgico.
Nell’avvicinamento alla data mi avevano accompagnato anche le notevoli fotografie di scena di Futura Tittaferrante; come l’annunciata presenza – dopo la collaborazione per “Nascita di una Capitale” – degli osannati Mokadelic, con le loro musiche dal vivo, e del set virtuale di Luca Brinchi e Daniele Spanò, artisti dalla consolidata esperienza nel realizzare cornici emotive di raccordo video.
Ultimo tassello: il mio appartenere a una generazione che vive ancora nell’offuscamento della sicurezza e del traguardo-miraggio del posto fisso.
“Il Teatro è uguale per tutti” si legge sul foglio di sala consegnato prima dell’ingresso in platea, ricordando un’altra frase lapidaria, “La Legge è uguale per tutti”.
Maddalena Crippa compare da dietro lo schermo, si siede sulla poltrona sul proscenio per interpretare il testo della Jelinek, il prologo “Risultato da lavoro”. Già si avverte quale potrà essere una delle difficoltà di questa opera mostrum: a dispetto della bravura della Crippa, si percepisce nelle parole della premio Nobel un cerebralismo, una freddezza intellettuale.
Quello che dovrebbe far togliere le ancore e gonfiare le vele, corre il rischio di non trascinare emotivamente in questa corsa ad ostacoli sindacali con la vita e il (soprav)vivere ma, ammirando l’estetica della messa in scena e il rigore dei temi trattati, lasciare un passo indietro il cuore.
“Vogliate scusare il disturbo”, pronuncia la Crippa: dà il là alle scariche elettriche dei Mokadelic, che paiono aiutare la dipartita dello schermo. Compaiono in scena le strutture di Andrea Simonetti, che si muoveranno per il palco – delineato dalle luci di Giovanni Santolamazza – per creare gli habitat in cui si articolerà l’opera, la band romana a sormontare uno di essi.
“Il quarto stato” di Pellizza da Volpedo, iconico nel rappresentare il primo grande sciopero compiuto a inizio Novecento, prende corpo tridimensionale grazie agli attori che avanzano, mentre continua la massa sonora e si accendono le proiezioni di Brinchi/Spanò, così da dar spazio alla corsa di tutti i quadri che comporranno i frame di questo kolossal sul lavoro.
L’iter narrativo si ripeterà, tracciando con le tappe regionali il suo pellegrinaggio per lo Stivale.
Più amati, da chi scrive, i momenti in cui l’onirico surreale suggerisce, evoca gli eventi, come nel caso dell’episodio dal testo della Cuscunà (Etnorama 34074) che, evocando la Tigre del Bengala, tratta della globalizzazione spaesante causata dalla Fincantieri di Monfalcone; o i momenti in cui la poesia dà forza all’uomo e al coraggio della sua anima, come nel caso di Davide Enia e della prova maiuscola delle sue “Scene dalla frontiera” su chi lavora nelle squadre di soccorso al largo della Sicilia, facendosi lui gigante nel cuntu che danza nel dialetto della sua terra, alle musiche dal vivo Giulio Barocchieri.
O ancora i racconti in cui l’urgenza, anche se imprecisa, ma in questo perdonata per voler dare il tutto per tutto lì ora, vibra dal palco: come per la denuncia dal colore “Petrolio” della Basilicata di Ulderico Pesce; in cui la commedia suggerisce il drammatico, come dal testo “Saluti da Brescello” di Marco Martinelli, le statue di Don Camillo e Peppone a prendere vita ancora una volta in regolar tenzone comico-dialettica per denunciare l’arrivo della mafia nella provincia emiliana (anche se sarebbe interessante vedere anche una versione completamente Teatro delle Albe).
Si è giocato anche per contrappunto e paradosso, dando voce al popolo che vede solo quello che è dato sapere nell’immediatezza della superficie del quotidiano, come nell’eccellente donna delle pulizie interpretata da Arianna Scommegna nella “Festa nazionale” di Michela Murgia sulle Basi Nato nell’Ogliastra (Sardegna); in cui il “North by North-East” e il suo start-up, nelle parole di Vitaliano Trevisan – anche in scena con Battiston e Citran – tra commedia dell’arte e incomunicabilità del dialetto, parla della distanza e dei confini che corrono ancora tra il resto d’Italia e il produttivo Veneto (e quante altre regioni d’Italia?).
Interessanti le lotte sindacali di “Meccanicosmo” da Wu Ming 2 e Ivan Brentari, dalla Lombardia “Redenzione” di Renato Gabrielli sul tragico grottesco del berlusconianesimo. Episodio meno riuscito quello del “Pane all’acquasale” da Alessandro Leogrande sulle storie di sfruttamento, tra Ilva di Taranto, il grande sciopero di Cerignola del 1904 e un bracciante polacco (di cui si sente eccessivo il suo essere interpretato).
Opera dalle grandi ambizioni, “Ritratto di una Nazione” ha enormi potenzialità per diventare ulteriore tassello nel mosaico di ciò che testimonia e documenta la storia del nostro Paese.
Si deve però permettere, come si accennava, di far volare alta la parola, accompagnata da quel cuore di cui spesso e volentieri ci si dimentica quando si parla di lavoro, perdendosi nel “burocratesimo” dell’intelletto che non parla la lingua del popolo.
Per ora si avverte come lava di vulcano, che denuncia sì storture e soprusi, ma che ha però bisogno di essere meglio indirizzata per poter scendere bruciando i confini geografici e, conservando l’identità di ciascuno, riscoprire quella nazionale.
Aggiustato il tiro, e dando compattezza narrativa ai raccordi tra storia e storia, quest’epopea potrebbe diventare quel corpo unico e solido evocato dal suo incipit, quel vero “Ritratto di una Nazione”, non fondata solo sul lavoro.
Giacomo d’Alelio
Vi lasciamo a una photogallery di immagini realizzate da Futura Tittaferrante.
RITRATTO DI UNA NAZIONE – L’ITALIA AL LAVORO
Venti quadri teatrali dalle regioni del Paese / Prima parte
un progetto di Antonio Calbi e Fabrizio Arcuri
regia Fabrizio Arcuri
dramaturg Roberto Scarpetti
colonna sonora composta ed eseguita dal vivo da Mokadelic
set virtuale Luca Brinchi e Daniele Spanò
Prologo:
Elfriede Jelinek – RISULTATO DA LAVORO
Testi:
Marta Cuscunà – ETNORAMA 34074 (Friuli Venezia Giulia)
Davide Enia – SCENE DALLA FRONTIERA da Appunti per un naufragio (Sicilia)
Renato Gabrielli – REDENZIONE (Lombardia)
Alessandro Leogrande – PANE ALL’ACQUASALE (Puglia)
Marco Martinelli – SALUTI DA BRESCELLO (Emilia Romagna)
Michela Murgia – FESTA NAZIONALE (Sardegna)
Ulderico Pesce – PETROLIO (Basilicata)
Vitaliano Trevisan – NORTH BY NORTH-EAST. Coffee shop e Start-up (Veneto)
Wu Ming 2 e Ivan Bentrari – MECCANICOSMO (lotte sindacali)
Interpretati da Giuseppe Battiston, Francesca Ciocchetti, Roberto Citran, Maddalena Crippa, Gigi Dall’Aglio, Michele Di Mauro, Davide Enia, Paolo Mazzarelli, Lino Musella, Filippo Nigro, Gianni Parmiani, Ulderico Pesce, Michele Placido, Arianna Scommegna, Vitaliano Trevisan e con Antonio Bannò, Antonietta Bello, Giulio Barocchieri, Vincenzo D’Amato, Fonte Fantasia, Cosimo Frascella, Alessandro Minati, Paolo Minnielli, Martina Querini, Stefano Scialanga, Francesca Zerilli
produzione Teatro di Roma – teatro nazionale
PROGETTO SPECIALE MiBACT
durata: 5 h
Visto a Roma, Teatro Argentina, 11-16 settembre 2017