La Medea di Müller rivive in un trittico (Riva fatiscente, Medea-Materiali, Paesaggio con Argonauti) che, riflettendo sulle macerie della civiltà occidentale, inaugura la collaborazione tra Comédie de Caen e Fondazione TPE
Siamo a Berlino, periferia industriale di Corinto. Tutto inizia con l’ingresso nella stretta galleria di un museo. Vi sono esposte tre grandi tele dipinte coi colori del mondo di domani, grigie immagini di una civiltà in rovina. Delle voci salmodiano versi in tedesco, una diffusione sonora che aiuta ad immergere il pubblico in questo spazio stretto e buio.
Di lì a poco le immagini di una Berlino martoriata dal Novecento ci investiranno, portandoci sulle rive del lago di Straussberg: qui Heiner Müller guarda il mondo della sua DDR e trasfigura una scena tipica della ritualistica comunista – il picnic domenicale sulle rive del lago che fu lo scenario della battaglia di Berlino nel 1945 – attraverso l’archetipo degli Argonauti:
“[…] Les garnitures périodiques en lambeaux Le sang
Des femmes de la Colchide
OUI MAIS FAIS ATTENTION
OUI OUI OUI OUI
VULVE BOUEUSE LUI DIS-JE CET HOMME EST À MOI
BAISE-MOI VIENS MON CHÉRI
Jusqu’à ce que l’Argo lui brise le crâne le navire désormais
Inutile
Suspendu dans l’arbre hangar […]”.
La durezza dei versi di Müller, questi accenti lirici e triviali, contraddicono la gentilezza con la quale le e gli assistenti adibiti alla sala ci hanno invitato a prendere posto nella galleria. L’entrata nell’universo dello spettacolo è infatti tutt’altro che traumatica. Ci accoglie un agente di mezza età che indossa un elegante tailleur blu bordato di rosso.
Ci guardiamo così attorno, guardiamo le pareti, i tre quadri che richiamano il gioioso disfacimento del nostro mondo. Ci scopriamo, però, piuttosto intenti a guardare gli altri per provare a capire dai loro occhi cosa vogliano dire davvero queste tele monumentali.
Nel frattempo siamo sempre più immersi nel radiodramma che Heiner Goebbels ha realizzato con il testo “Verkommenes ufer” (“Rivages à l’abandon” / “Riva fatiscente”), nel 1984 letto e recitato dai passanti di una stazione della metro alla periferia di Berlino, inconsapevoli protagonisti di uno dei teatri possibili di Müller.
Così, comprendendo o meno il testo originale, Matthias Langhoff ci costringe subito nell’universo di un’opera scenica che, oggi come il 22 aprile 1983, data della sua prima creazione, cerca di trasporre in immagini e suono le macerie della storia, del presente e del futuro dell’Europa.
Prima è stato lo Schauspielhaus di Bochum ad ospitare la creazione di un’opera che Langhoff ha realizzato grazie alla potenza delle immagini di Müller. Oggi sono la Comédie de Caen e il Théâtre de la Commune d’Aubervilliers – luogo caro a Langhoff fin dal 1971 – ad ospitare il trittico. Dal 23 al 26 febbraio sarà invece il teatro Astra di Torino ad accogliere le parole di un poeta schiacciato tra “due dittature” e due sogni: liberarsi dal nazismo attraverso il comunismo, liberarsi dal comunismo attraverso un marxismo che avrebbe saputo espiare il dolore provocato dalla costruzione della “società giusta”.
Gli stessi quattro agenti del “prologo” interpretano i personaggi e danno anima alle immagini del trittico “Verkommenes ufer, Medeamaterial e Landschaft mit argonauten”.
I due attori e le due attrici ci conducono negli antri della poesia di Müller e della visione drammaturgica di Langhoff, che fa un uso scenico disperato e crudele dei frammenti di una memoria del passato per recuperare, con la coscienza del passato, la consapevolezza di un avvenire che inesorabile si avvicina.
La coppia Medea (Frédérique Lolliée) e Giasone (Marcial Di Fonzo Bo) guida la traversata di un teatro che concepisce la scena come un luogo in cui “l’immaginazione collettiva si esercita a far danzare i rapporti sociali pietrificati”. Questa la scena sperimentale secondo Müller e uno degli insegnamenti appresi lavorando con Brecht e col Berliner Ensemble dal 1949 al 1956. Quest’idea di teatro come esperimento sul materiale umano e sociale riprende forma, oggi, in un dispositivo scenico che si carica di continui rimandi ad un passato storico, alla sua violenza, per mettere a distanza, col mito, la violenza che viviamo oggi.
Langhoff, in un’intervista con la studiosa francese Odette Aslan, ha dichiarato: “Non scelgo mai una pièce per le sue virtù sceniche ma per quello che ci comunica nelle circostanze presenti. Shakespeare e i miti greci mi permettono di avanzare in questa direzione”. Questa formula racchiude forse il senso profondo dell’insegnamento ricevuto, e non tradito, da quest’altro erede diretto ed eretico di Brecht.
Di certo, dietro l’urgenza della prima scrittura del testo e l’elaborazione della prima versione di questo spettacolo nel 1982, possiamo riconoscere, a distanza ed in filigrana, l’urgenza che spinge oggi Langhoff a rielaborare quest’opera: l’illusione della fine o dell’impasse della storia di ieri non era altro che l’anticipazione della tragedia di domani. Ora che il domani è qui, le rovine da cui siamo sommersi non sono altro che la promessa di una nuova catastrofe.
Sono questi i temi presenti in tutto lo spettacolo. Nel momento in cui gli assistenti di sala spaccano l’ambiente fittizio della galleria d’arte e, spingendo le due tele monumentali, ci accompagnano nello spazio dello spettacolo vero e proprio, con cortesia ci obbligano ad attraversare una fila di binari orizzontali rispetto alla platea, che terminano verso un albero secco, morto. All’altra estremità di questi binari, carichi di un valore simbolico doloroso, una piccola cucina a gas, un oggetto quotidiano, banale. Sopra, una composizione che mette in primo piano una foto di Müller che fuma davanti alle rovine del suo lago.
Le tele, che vengono aperte per permetterci di penetrare nello spazio del dramma – della sua critica e della sua comprensione viscerale –, sono sia tele giganti che quinte girevoli, dunque. Langhoff, nell’incontro successivo alla visione dell’opera, rivela che il dispositivo scenico gli è stato suggerito durante una mostra di Anselm Kiefer.
Ma la dialettica complessa e contradditoria generata sul palco si rivela più complessa. Il retro delle tele è anche un luogo di proiezione di immagini, così come queste quinte saranno di nuovo aperte per inquadrare il dialogo tra movimento scenico e proiezioni audiovisive. Inoltre, durante il primo trittico, la quinta girevole di destra diventerà spunto per un tipico esperimento brechtiano di letterarizzazione del teatro: attraverso la poesia “Immagini” di Müller, l’immagine del comunismo è evocata come “immagine finale, sempre rinfrescata perché lavata col sangue”.
Questo testo e il suo uso scenico ci invitano a giudicare, non a subire, la valanga di immagini sceniche e poetiche che si aprirà davanti a noi. Ma è tutta l’opera un gioco dialettico sottile tra una pluralità di elementi fortemente significanti.
Se scaviamo un po’ nell’archeologia di questa creazione, possiamo circoscrivere alcuni elementi che potrebbero aver ispirato la prima elaborazione dell’opera all’inizio degli anni Ottanta e questa ulteriore versione.
Michel Bataillon, dramaturg al TNP di Villeurbanne dal 1972 al 2002, e prima ancora al Théâtre de la Commune, è stato tra i primissimi ad introdurre in Francia, da germanista, traduttore e da uomo di teatro innamorato del teatro tedesco, le opere di Langhoff e di Manfred Karge agli inizi degli anni Settanta. È lui che ci ha spiegato che, nel 1983, Langhoff era stato molto colpito dai lavori di due fotografi, Friederich Seidenstücker e Jean-Claude Gautrand.
Del primo, sono le immagini della quotidianità della Berlino sventrata dalle bombe nel 1945 che lo avrebbero rapito; del secondo, le foto in bianco e nero molto contrastate delle derisorie fortezze lasciate dai tedeschi sulle coste della Normandia: i bunker che non servirono a respingere l’ondata delle truppe alleate nel 1944 e che ora giacciono sepolte nella sabbia.
Se guardiamo le due tele che costituiscono la scenografia principale dello spettacolo possiamo forse riconoscere questi riferimenti fotografici nelle opere realizzate dalla scenografa e costumista Catherine Rankl. Da una parte, la sequenza fotografica di una ballerina incornicia la visione panoramica di un museo in stato d’abbandono; dall’altra, una barca seppellita nella sabbia, che sembra aver impattato su una statua classica spezzata alla base, rinvia tanto al tema mitico di Giasone in Colchide che alle foto di Gautrand.
In entrambi i casi, al di là del serbatoio estetico in cui Langhoff ha nutrito la sua creazione, è quello dialettico che sembra contare di più: l’immagine della guerra di ieri e la necessità di una bellezza che ci salvi dal futuro. Il futuro, ieri, era la distruzione necessaria perché avvenga “il futuro dell’umanità”; oggi, invece, il regista dichiara di voler parlare della perdita di ogni coscienza storica, che invece ci aiuterebbe a capire l’origine della devastazione contemporanea di cui siamo tutti complici.
Se pensiamo alla difficoltà d’introdurre in Francia e nell’Europa occidentale questo teatro, possiamo forse capire meglio la difficoltà del pubblico francese oggi ad accettare il confronto spietato a cui questa produzione teatrale obbliga il suo pubblico.
Müller e Langhoff appartengono, ancora adesso, ad un teatro della Germania dell’Est intriso della tragedia vissuta dagli abitanti della DDR e della loro particolare disperazione. Inoltre, con quest’opera si ha a che fare con un teatro non brechtiano ma che fa i conti senza ipocrisie con Brecht, un teatro politico che non crede più nei lendemains qui chantent perché ha vissuto sulla propria pelle la dura disciplina quotidiana del futuro dell’umanità.
La forza con la quale Frédérique Lolliée porta in scena la Medea di Müller è infatti accolta con un primo distacco ed una certa ironia, come se il pubblico chiaramente comprendesse, ma rifiutasse la potenza brutale della protagonista di Medeamaterial. L’attrice mette in gioco tutta sé stessa, tutto il suo corpo e la sua maestria per servire un personaggio barbaro e selvaggio, certo, ma di una barbarie che ha che fare con una violenza particolare, quotidiana, banale ma anche storica. Impossibile per Langhoff, quindi, rinunciare ad una trovata di grande impatto già sperimentata nel 1983.
Questa Medea dialoga con i suoi figli ridotti a cibo per cani, chiusi in due scatolette di latta che saranno aperte e il cui contenuto sarà frantumato sul palco, col lezzo di questa carne percepito da tutta la platea.
Dietro questa immagine simbolica, che dà senso materico alla complessità del testo, i riferimenti possibili si moltiplicano. Il testo rimanda del resto ad una violenza antropofagica che permette di tenere insieme sia la specificità antropologica di Medea che il richiamo ad una violenza della storia che viviamo tutti come ricordo o come attualità. Allora, le quasi risate, i sorrisi ironici del pubblico confrontato a questa brutalità esprimono la fatica a lasciarsi investire dalla potenza delle immagini evocate da Müller, da Lolliée e da Langhoff. Tuttavia, l’attrice sa tenere in pugno il pubblico per obbligarlo a guardare con sgomento l’urlo selvaggio di questa Medea-Angelo della storia, perché, come diceva Benjamin, ha gli occhi fissi sulla distruzione del passato e ci trascina verso quella del presente.
Allo stesso modo, ma con una recitazione volutamente monotona e a tratti snervante, perfetto controcanto a quella di Lolliée, Marcial di Fonzo Bo presenta un Giasone fisicamente alla deriva, disteso sul fondo di una nave Argo che altro non è che una bagnarola, mentre la poesia di Müller viviseziona l’anima del corpo di questo attore e personaggio, che si staglia davanti a noi come “il paesaggio della [sua] morte”: la morte di una civiltà intera, la nostra, di cui questo corpo e questa scena è metonimia, come spiega Langhoff dopo lo spettacolo.
Le immagini del quotidiano massacro ucraino, dei carri armati con la croce dell’esercito tedesco che fu la Wehrmacht che combattono ai confini della Russia, e infine anche lo spettacolo della distruzione quotidiana della Terra come ecosistema non permettono a nessuno di noi di distogliere lo sguardo dal paesaggio di morte in cui siamo sommersi.
Da questo punto di vista, non sembra casuale che l’inizio delle repliche torinesi di quest’opera cada il 23 febbraio, anticipando di un giorno l’anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina, giorno in cui il mondo ha scoperto il potenziale tragico collettivo di un conflitto che si propaga dal 2014.
Rivage à l’abandon, Médée-Matériau, Paysage avec Argonautes
Testo di Heiner Müller, mis en scène par Matthias Langhoff
con Claudio Codemo, Marcial Di Fonzo Bo, Laura Lemaitre, Frédérique Loliée
collaborazione artistica di Véronique Appel
scenografia e costumi di Catherine Rankl
pitture di Catherine Rankl, Eric Gazille
creazione parrucche e trucco di Cécile Kretschmar
creazione video di Anton Langhoff
creazione luci di Laurent Bénard ou Olivier Allemagne
direzione di placo di Laura Lemaitren e Claudio Codemo
ingegnere del suono: Baptiste Galais
una produzione della Comédie de Caen – CDN de Normandie, in coproduzione con La Commune CDN d’Aubervilliers, Teatro Piemonte Europa – Torino
durata: 60′
Visto a Aubervilliers, CDN-Théâtre de la Commune d’Aubervilliers, il 1° febbraio 2023