«Da attrice, sono praticamente cresciuta con le eroine del teatro classico: Ismene, Antigone, Ermione. E ora, finalmente, Ifigenia».
Iphi-ghéneia: “nata forte”. A volte l’onomastica sa essere tragicamente beffarda, perché di questa irriverente ipostasi gallese – a tutti nota come Effie la sfrontata – cogliamo innanzitutto l’umana fragilità, il lento approssimarsi alla catastrofe, verso quel momento in cui cadrà vittima (più o meno sacrificale) di una congiura moralmente e legalmente ingiusta. Solo che questa volta, ad attenderla sull’altare (o meglio, fra le alture, dove l’ambulanza ha sbandato), ci sono una neo-Artemide di nome malasanità ed un odioso Agamennone in veste d’infermiera. La nostra storia, però, comincia almeno nove mesi prima.
Effie (Roberta Caronia) è sola per l’intera durata dello spettacolo. Nel nero dilagante della sala si stagliano unicamente due colori: la canotta rossa che l’attrice porta addosso e il pallore albino di quel gessetto che, ticchettando sulla lavagna posta a fondo scena, scandisce i vari capitoli del mito, una divisione – questa – già presente nell’originale “Iphigenia in Splott” di Gary Owen, tradotto per l’occasione da Valentina De Simone.
Lo spettacolo, con la regia di Valter Malosti, debutta al Festival delle Colline Torinesi dopo uno studio, del 2016, inserito nella rassegna Trend – Nuove frontiere della scena britannica: «Fin dall’inizio – ci racconta Roberta – sentii che la proposta di Valter aveva tutta la dignità di uno spettacolo. Ifigenia è l’archetipo di colei che si immola per un bene superiore, un valore assolutamente distante dalla nostra società (i britannici, d’altronde, sono sempre affascinati dal classico). Mi imposi perciò di imparare il testo a memoria già per il primo step a Roma. La risposta del pubblico fu molto buona».
La vita nauseante di Effie, tra una sbronza e una serata con Sacha (il focoso idiota cui la ragazza si accompagna), trova un punto di svolta nel folgorante incontro con il soldato di ritorno dall’Afghanistan, bello come Achille (protesi all’arto inferiore a parte), quanto fascinosamente cialtrone. “A one-night stand” che rovescerà le sorti della donna “once and for all”. È la peripeteia, nel suo significato più proprio.
Da quel momento in poi, una piccola bomba ad orologeria verrà innescherà nel ventre di Effie, la quale ormai «non si sente più sola»: a tenerle compagnia, un cucciolo che – dopo aver tanto maledetto e tentato di annientare – alla fine abbraccerà con affetto. La sboccata, la squattrinata, l’immatura protagonista, persa nella sua desolazione esistenziale, trova nella figlia un’ancora di salvataggio, e si appiglia ad essa come ad una possibilità estrema di riscatto.
“Ifigenia in Cardiff” è un’opera dal ritmo serrato, battente, agitissimo (e agitatissimo): la protagonista lo definisce «un flusso di coscienza continuo, con azioni e movimenti molto “asciugati” e nevrotici, a tratti ossessivi. Lavoro quasi totalmente compressa in un’unica posizione (tranne quando ballo o nella scena dell’amplesso): sembra un continuo primo piano cinematografico».
Roberta Caronia, ancora una volta abilmente diretta da Malosti, condivide con Effie non solo l’esperienza della maternità, ma anche la predilezione per il “mare d’inverno”.
L’artista riesce a emozionare il pubblico, in profondità. È, la sua, una prova d’attrice che ci fa fremere e riflettere. Tassello molto complesso è l’atto di compassione finale: si tratta forse di un punto debole del testo, sul quale però – e con maggior fantasia – regista e interprete hanno potuto lavorare. Effie viene colta come da una folgorazione epifanica (lo segnala anche il cambio di luce, che si fa più circoscritta e calda), decidendo di interrompere, malgrado tutto, la diatriba legale contro l’ospedale. È una decisione politica maturata all’interno di un’ingiustizia sociale, oppure l’allucinazione emotiva di una Salvatrice per caso? La scelta arriva così improvvisamente da farci propendere per la seconda soluzione.
Concludiamo con un accenno sul piano linguistico. “Ifigenia in Cardiff” ha in realtà ben poco di gallese. Delle alture di Cymru e dei relitti di Splott non restano che vaghi frammenti disseminati qua e là, fra i sintagmi del monologo. Come sottolinea la Caronia, tutto ruota attorno ad un’emarginata, alla sua «diversità»: «Di Cardiff si parla, ma la vera coerenza nei confronti del testo di partenza sta nell’aver ritratto una periferia, nell’aver riposizionato [sia pur in un altrove mai chiarito, n.d.r.] un’umanità vessata dalle differenze sociali».
Tale difformità di piani, registri e idioletti si riflette nel coro di voci che assediano a turno l’anima dell’interprete: si torna così all’antico espediente del plurilinguismo funzionale di machiavelliana memoria, al nesso (teatralmente collaudatissimo ma troppo spesso dimenticato dai registi) eloquio-ruolo. E così Sasha si esprimerà con difficoltà e pressapochismo, al pari di uno slavo da poco giunto in Europa, mentre la coinquilina Leanne è la “burina” per antonomasia. Quella di Malosti è dunque una traduzione scenica addomesticante, target-oriented direbbero i cattedratici: rende nostro un personaggio nato “lontano lontano” trasformandolo in universale.
IFIGENIA IN CARDIFF
prima nazionale
di Gary Owen
regia Valter Malosti
traduzione Valentina De Simone
con Roberta Caronia
produzione Teatro di Dioniso
durata: 1h
applausi del pubblico: 4′
Visto a Torino, Casa del Teatro Ragazzi e Giovani, il 16 giugno 2017