Sul litorale romano il Teatro del Lido di Ostia si ripara in un’ala di quell’immensa struttura che lo ospita, e che stasera ricorda a tutti di essere l’ex “Ospizio marino e colonia di profilassi” intitolato al Re Vittorio Emanuele III. Terzo, e Re, come “Riccardo l’infermo”.
In scena la suggestione è ancora più forte: due letti d’ospedale, una cassetta del pronto soccorso, una sedia a rotelle. Il confine tra realtà e finzione vacilla, e a vanificarlo ulteriormente è l’entrata in scena di Roberto Abbiati, in abiti da degente, che in una sorta di manifesto del teatro contemporaneo spiega al pubblico il significato del titolo e soprattutto del sottotitolo, brandendo un pappagallo ospedaliero, lontano discendente del cavallo per il quale Riccardo III avrebbe ceduto il suo regno pur di salvarsi.
“Il mio regno per un pappagallo!”. Sarà questa l’invocazione finale di un personaggio sopra le righe, un uomo, un attore, un clown, ricoverato e in attesa di un intervento chirurgico, perché il suo ginocchio dolorante non funziona, e che nell’attesa cercherà di assicurarsi la parte del re mettendo le mani, o i guanti, sulla corona.
Lo storpio e sanguinario eroe shakesperiano si cala nei panni di un uomo “piscinin brut e catiff”, che con il viso pallido e la gestualità buffa e malinconica di un clown si accattiva le simpatie del pubblico. Sono infatti gli spettatori che si concedono, che cambiano nome su invito di quel Riccardo che con fatica scende dal palco a invitare di volta in volta dal pubblico il suo amico Buckingham, il Re Edoardo, il fratello Giorgio e Lady Anna; sono gli spettatori che si infilano in un letto di corsia o su una sedia a rotelle, e che giocando cedono alle improbabili lusinghe dell’infermo, conoscendo però sin dall’inizio l’esito della tragedia e ben sapendo che Riccardo non sarà clemente neanche con loro.
Intanto in sala si ride, e molto, per le rocambolesche invenzioni sceniche, per gli spettatori saliti sul palco in balia di Abbiati, che è anche regista e co-autore insieme a Francesco Niccolini, e per il dolore dell’uomo che, quando non è intento ad architettare il suo piano, si ricorda di dover essere operato al ginocchio; non al menisco, sia chiaro, quello già è stato operato. Il problema sono i ‘legamenti’.
E allora sommersi dall’onda dell’associazione libera che Abbiati fa infrangere sul teatro del Lido, ci accorgiamo che il problema di Riccardo è proprio il ‘legame’ malato che il protagonista ha con chi gli sta attorno. Lo leggiamo nella dichiarazione che Riccardo fa a Lady Anna: “Mai donna fu corteggiata in questo stato…”, sdraiato a terra perché il ginocchio non lo regge, posizione profetica e cara sì ad Eros, ma ancor più a Thanatos.
Lo scopriamo nella cassetta di pronto soccorso che, infilata sulla testa dell’improvvisato fratello Giorgio, diventa la finestra della prigione della torre, sottolineando come l’infermità sia diventata per Riccardo e per chi gli sta attorno una gabbia dal quale l’unica via di fuga è quella più sanguinosa.
Il protagonista finirà dunque liberandosi di chiunque si frapponga tra lui e la corona, e rimanendo infine nuovamente da solo in scena. Con le mani sulla corona Riccardo si troverà a dover scegliere tra il bisogno più impellente (il pappagallo…) e il potere (la corona). L’infermo risolverà l’enigma scegliendo il “bisogno di potere”, continuando dunque a trasformare le parole e la realtà che lo circonda.
Sembra tutto lo strano sogno di un clown, e forse lo è davvero; d’altronde è lo stesso autore a dire che “è impossibile costruire un discorso sensato intorno a questo Riccardo III, forse non si riesce neanche a capire la trama, forse non si comprendono neanche le parole, e anche il corpo spesso si rifiuta di raccontare si accartoccia, e da queste storture salta fuori il personaggio più vero quello con l’esigenza di raccontare, di vivere, di non morire”.
Roberto Abbiati è tornato a Ostia ad un anno dal successo di “Pasticceri. Io e mio fratello Roberto”. La gabbia che in “Pasticceri” era rappresentata dalla cucina, in “Riccardo l’infermo” la ritroviamo nella corsia d’ospedale: è questo stavolta il ventre della balena (il riferimento va all’altro suo “Una tazza di mare in tempesta”), nel quale Abbiati fa muovere il suo clown, e dal quale cerca di tirar fuori il pubblico lasciando a noi, di noi stessi, una coscienza differente.
Il sipario non si chiude. E sulle ultime battute, “Che coraggio ci vuole per sostenere la speranza degli uomini?”, non è chiaro se a pronunciarle sia Riccardo, il clown o l’autore.
RICCARDO L’INFERMO – Il mio regno per un pappagallo
molto, ma molto liberamente ispirato al Riccardo III di William Shakespeare
drammaturgia: Francesco Niccolini e Roberto Abbiati
idee musiche e suggerimenti: Bano Ferrari e Carlo Pastori
Visto a Ostia, Teatro del Lido, il 24 gennaio 2015