L’incontro di Roberto Latini con il Teatro Comico di Goldoni è un frontale in autostrada tra due mezzi pesanti.
Uno schianto dopo il quale sezionare le parti e riattribuirle ai legittimi proprietari è impresa ardua e inutile. Di sicuro c’è una vittima innocente, e porta il nome di Arlecchino. La sua statua è collocata sulla destra del pubblico, in proscenio, fuori dal sipario di plastica, e quindi già visibile ancor prima dell’inizio dello spettacolo. E’ lì, monumento di sé stessa, nel tempio dell’Arlecchino strehleriano; eppure qualcosa non convince, siamo preoccupati. Non sembra tanto un omaggio, quanto un cadavere pronto ad essere sezionato, analizzato, capito, interpretato ma mai vilipeso.
E’, ad esempio, una delle poche maschere mancanti in scena, eppure c’è sempre. La sua presenza è affidata ad un microfono calato dall’alto al quale Orazio/Latini presta la voce; si riconosce nelle pezze colorate di cui si compongono improvvisamente tutti i personaggi, nel lazzo della mosca che diventa un filo rosso ripetuto con ossessione, nella fame e nella precarietà, fino a comparire realmente a pezzi sopra le teste degli attori (tutti di un certo calibro: Elena Bucci, Marco Manchisi, Savino Paparella, Francesco Pennacchia, Stella Piccioni, Marco Sgrosso e Marco Vergani).
Nel primo atto un’enorme “zattera di Babele” meccanica è la grande protagonista. Un palco rialzato collocato sul palco del teatro costringe le maschere a muoversi con prudenza, cercando di mantenere la struttura sempre in equilibrio per evitare bruschi e imbarazzanti sbilanciamenti, simbolo di quella fragilità intellettuale che Goldoni stava cercando di scardinare in quel 1750, e che la regia di Latini ci fa percepire come estremamente necessario e vicino.
Vacillano le già minate certezze degli attori che si trovano, quasi improvvisamente, a fare i conti con un teatro diverso che cercava, senza saperlo, di staccarsi dal pesante fardello della Commedia dell’Arte e dell’improvvisazione per iniziare ad abbracciare quel realismo che diventerà il fulcro della sua riforma. E’ anche la prima volta del teatro nel teatro, di un testo cioè che mostra una compagnia intenta a mettere in scena una commedia, “Il Padre rivale del figlio”.
Tutto ciò viene conservato: i costumi classici, le maschere, i dialetti diventano simbolo di una contaminazione in atto che esploderà nel secondo atto.
L’incidente citato all’inizio, lo scontro che sta per svolgersi, è ben visibile nei manichini da crash test che, confondendosi tra gli attori, incombono silenziosi sul fondo, ai lati della scena madre.
E’ tuttavia nel secondo atto che la trasformazione prende vita, si perdono i confini fisici di spazio e di tempo, e la zattera rialzata sparisce per lasciare spazio alla danza della precarietà, del dubbio. E’ il doppio a conquistarsi tutto. Una campanella è l’unica sicurezza che, intervenendo a gamba tesa, separa i momenti di recitato da quelli del dietro le quinte, durante i quali gli attori si riposano, si tolgono i costumi, cambiano “stile”.
La statua arlecchinesca del proscenio non ce la fa e si inclina orizzontalmente, simbolo di una “caduta del dittatore” che lascia spazio non alle certezze ma alle grandi domande, a quel pericoloso momento di confine in cui tutto è possibile e impossibile allo stesso tempo (che argomento attuale!).
Un circo di colori, esplosioni, luci, fumo all’interno del quale il capocomico è il grande domatore, una guerra civile del teatro per ritrovare un teatro altro nelle prove di uno spettacolo che scioglie il trucco e la maschera del Settecento per abbracciare una modernità che vuole porsi interrogativi importanti.
In scena al Piccolo di Milano fino al 25 marzo.
Il teatro comico
di Carlo Goldoni
adattamento e regia Roberto Latini
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
luci Max Mugnai
musiche e suono Gianluca Misiti
con (in ordine alfabetico) Elena Bucci, Roberto Latini, Marco Manchisi, Savino Paparella, Francesco Pennacchia, Stella Piccioni, Marco Sgrosso, Marco Vergani
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
durata: 2h 30′
applausi del pubblico: 3′ 08”
Visto a Milano, Piccolo Teatro Grassi, il 22 febbraio 2018
Prima nazionale