Nell’arco che si estende simbolicamente tra il suicidio di Majakovskij e la nomina di Marinetti ad accademico d’Italia sotto il fascismo (per restare ai due futurismi) corre l’intera gamma dei rapporti tra l’avanguardia e la politica, il sistema, la società “normale” e normata.
Su questo arco l’arte di Eugenio Barba e del suo Odin Teatret, nato nella temperie del 1964, sono riusciti negli anni a ricavarsi il luogo perfetto, centrale, nell’aurea medietà; è lui, Barba, l’Odisseo che sa incordare quest’arco, avvicinandone gli estremi e rinnovandone l’efficacia.
Ne è prova, accanto alla pervicace e ancora per tanti versi scandalosa linea di ricerca del gruppo, l’affettuoso interesse che Roma sta tributando al grande maestro del teatro nel 55° anniversario della creazione della compagnia di Hostebro, con incontri, dimostrazioni, proiezioni, mostre e uno spettacolo divisi tra vari teatri e luoghi della capitale. Segno che, se di avanguardia si è trattato, pur non cedendo vive, e per nulla appartata; comunica, però senza cedere alla musealizzazione, ultimo spauracchio.
Nei decenni l’Odin ha saputo infatti continuare ad essere scrittura, esercizio, tecnica e formazione attoriale, ricerca antropologico-teatrale, senza rinunciare a rimanere instancabile fucina estetica, tale da stabilire un conio inconfondibile che informa testi e scene persino nelle loro componenti meramente topografiche e compositive.
Di tutti questi versanti abbiamo scelto di accostarci a quello della scuola e a quello della documentazione: il prima e il dopo l’evento spettacolo, attentamente curati dal gruppo di Barba, a testimonianza di una compagnia-mondo, che sa preparare i propri strumenti e confezionare la propria testimonianza storica.
Ecco dunque a mostrare la propria personale formazione, in un intenso percorso autobiografico che ha tratti in comune con l’appassionante libro/manuale di Julia Varlay, Carolina Pizarro, attrice cilena membro permanente dell’Odin dal 2015 ma già da diversi anni prima frequentatrice assidua e legata alla lezione dell’artista inglese e di Roberta Carreri.
Ripercorrendo sul palco del Teatro Argot Studio la propria vita personale, l’incontro e poi la definitiva entrata nel mondo dell’Odin Teatret, Pizarro illumina realmente lo spazio scenico a partire dalla propria storia personale, quasi rispecchiando sullo spettatore la richiesta che i suoi maestri le fecero: quella di portare su quelle assi la sua famiglia, il suo paese, la memoria, conservata o taciuta, della dittatura militare, i gesti antropologicamente fusi nei corpi dei suoi genitori e avi.
Così, in una disinvolta unione di tecnicismi e misticismo (nel suo senso più puro di coacervo panico, che nulla lascia fuori), siamo trasportati dall’India delle pratiche e arti marziali, di cui l’attrice è divenuta esperta, alle sale di lavoro danesi, ai palcoscenici sudamericani, alla sua propria casa, lieta della nascita di una figlia, e comprendiamo tutta la forza inattesa di unioni apparentemente gratuite tra gesti e parole agli antipodi, tra sorgiva improvvisazione e memoria, e culture lontanissime che non si sono mai parlate, in una continua ricerca di identità tra la rimodulazione e ridefinizione continua del mestiere di attrice e la propria ricerca nel mondo.
Altrove, alla Casa dei Teatri, Villino Corsini, Chiara Crupi presenta un’opera singolare nel pur vasto panorama dell’Archivio dell’Odin, la resa cinematografica di “La vita cronica”, nelle sue riprese italiane e danesi del 2013 e 2015 (lo spettacolo risale al 2011).
Il fulcro dell’incontro, concluso con una distillata elegante chiosa del maestro Franco Ruffini, insiste sull’operazione di traduzione del testo teatrale in testo filmico, di cui la regista sottolinea alcuni aspetti tecnici, per un’operazione da lei stessa definita “impossibile”.
“La vita cronica” è ambientato contemporaneamente in Danimarca e in altri paesi d’Europa nel 2031, dopo la terza guerra civile. Individui e gruppi con retroterra diversi si ritrovano insieme e si confrontano spinti da sogni, disillusioni e attese divergenti.
Per coloro i quali, come chi scrive, non conoscevano “La vita cronica”, l’incontro è stato soprattutto con essa, quale che fosse il medium che la parlava, con buona pace dei semiologi: ci si è trovati davanti a un’inarrestabile partitura cameristica per sette esecutori (più una marionetta e due figuranti), voci, canti, musiche, battute, movimenti, trucchi e illusioni magiche, costruzione di nuove prospettive, ridefinizioni e risemantizzazioni di oggetti di scena e porzioni dello spazio, luci e costumi, evocazioni di trasparenti simboli. La concertazione – il concertato, appunto – non solo delle diverse voci, ma anche delle diverse componenti dello spettacolo, gestite con tempi e dinamiche sempre attenti a costruire ambienti, “energie” si direbbe, intensificazioni e distensioni lampanti, fa pensare alla magistrale gestione del tempo dei grandi compositori del passato.
Il film, che nasceva come pura documentazione ma che, con l’apporto dello stesso Barba al montaggio, ora aspira a diventare una transcodificazione del testo teatrale sullo schermo, tenta di tradurre nel montaggio quelle stesse precise cognizioni ritmiche e di intensità che il palco deve aver saputo generare, e che comunque in gran parte si riescono a redimere e restituire.
Il risultato, al di là dei limiti di statuto, è completamente coinvolgente, e dà per l’ennesima volta la dimostrazione di quanto il teatro contemporaneo ancora oggi si nutra delle conquiste, magari volgarizzandole, di Barba e dei suoi. E insinua il sospetto che chi non le conosce, o non ne sa tenere debitamente conto, suoni ancora desolatamente anacronistico, e sia destinato a sboccare fuori strada.