E’ nel pieno di una partitella di pallone che il pubblico viene introdotto in sala.
Si sente subito uno strano odore, sgradevole ma ambiguo, non facile da focalizzare alla percezione di uno spettatore lungamente in attesa nel foyer di un mesto teatro India, a fare il paio con l’incubo di “attività ordinarie”, con l’incuria del circondario di erbacce e fanghiglia, e di quelle transenne – simili ai lenzuoli sul mobilio nelle stanze dei castellani decaduti – che occludono ogni passaggio non essenziale, non indispensabile alla vita organica, non di stretto servizio. Quella tipica incuria che non è perfida e maliziosa, ma infame: l’incuria del continuare a vederci finché le lampadine non saranno tutte bruciate, e poi non si sa, del non rinfrescare le pareti che con le vernici di risulta, avanzate e diluite, scialbe.
L’incuria del non cambiare aria nei camerini e in sala, tra una replica e l’altra.
In quell’aria viziata si apre “Romeo e Giulietta ovvero La perdita dei padri”, di Francesca Macrì e Andrea Trapani, coprodotto da Teatro di Roma e Biancofango.
È una drammaturgia a tesi, innestata sul sempre fertile terreno di rilettura e sperimentazione anche laboratoriale del dramma shakespeariano. Lo spettacolo è infatti frutto di un percorso teatrale con ragazzi scelti nelle scuole romane sull’argomento ‘padri e figli’. O per meglio dire, la ridicola piccolezza d’animo degli adulti di oggi, la loro corruttela, che risalta ancor più inquinata di fronte alla cristallina assolutezza e audacia, all’eroismo grande e gratuito degli adolescenti.
La tesi risulterà perfettamente sviluppata, e lo iato chiarito nei fatti.
Sul terreno di uno spazio scenico completamente sgombro, su cui non si ritrova ricerca estetica in senso classico, in cui le luci per lo più mostrano, soggette alla necessità di illuminare più di una decina di ragazzi e due attori adulti, si gioca una partita di pallone, come nei “campetti di periferia” citati dal programma.
Nel mezzo di quella partita che puzza di scarpe da ginnastica usate il pubblico si accomoda, mentre fra le squadre in breve nasce e si accende bruciante un dissidio più forte, quello tra Capuleti, attaccati da sinistra, e Montecchi, da destra, che si converte in rissa, cui seguirà l’ultimatum del Principe a cessare le faide cittadine.
Come l’incipit, tutta la tragedia è spostata, costumi, situazioni ed elementi scenici, in una contemporaneità che s’integra bene con le battute aggiunte e le trovate sceniche dei due capifamiglia, per lo più attenti a che lo scontro non dilaghi in violenza, che insomma tutto resti nell’alveo rassicurante delle ragazzate, di una partita di pallone, di un paio di parole troppo forti, di impuntature cameratesche, bullerie di strada, strafottenze da scappellotti.
Sarebbe noioso ma non inutile ripercorrere punto per punto i momenti tradotti e riadattati dalla Verona shakespeariana al presente di oggi, e quelli invece mantenuti immutati, letterali. Basti però ricordare che, se il ballo dei Capuleti diventa un party in cui il capofamiglia s’improvvisa squallido dj mentre gli scontri cittadini sono partite da strada, cagnare e baruffe, le uccisioni di Tebaldo e Mercuzio vengono lasciate nella veste originale: i due effettivamente muoiono, in una scena resa con un efficace benché raddoppiato ‘ralenti’ calcistico. E anche i due amanti convolano in matrimonio segreto, proprio come in Shakespeare.
Sono attimi in cui, oltre allo spazio, è la materia del dramma che subisce un improvviso ritorno alla lettera, e la scala immediatamente cresce, smisuratamente, sotto i nostri occhi, ripiombandoci – non senza il necessario respiro atto a riprendere l’equilibrio – nel dramma di sangue.
Sembrerebbe in queste scelte di scale differenti il senso dell’operazione drammaturgica. È in quei momenti, in quelle scelte in cui l’attribuzione di omicidi e sposalizi a ragazzi qualunque, comuni, odierni, vuole forse suggerire che il nobile e il grande, quando traghettati dal dolore e dal sangue, quest’epoca non sa più rintracciarli, se non nel cuore degli adolescenti, immutato. Che nobiltà, grandezza e sangue esistono solo se gli adolescenti se ne fanno mallevadori, portatori, come di un virus, nel corso delle vene, mentre i grandi assistono ottusi, pateticamente imbolsiti da consumismi e quietovivere.
La tesi non è nuova, in parte falsa (il prosciugamento delle forze eroiche e positive colpisce tutta la pianta), ma sempre affascinante, e come si diceva ben condotta, specialmente sul piano dell’accuratezza di scrittura. E se la recitazione energica e senza timori dei ragazzi non s’imbatte nella maggior parte dei cliché da laboratorio – mentre ottimi e spie-tati brillano Simone Perinelli e Andrea Trapani nelle parti dei genitori –, è nelle figure liriche e impiastrate di autentica umanità, è nei corpi di Rosalina e Paride che la tragedia partorisce il dramma, e che dall’olocausto tragico riesce a spuntare in un germoglio che ferisce e si protrae.
Lei, personaggio muto nel dramma di Shakespeare e lui, il conte rifiutato da Giulietta ma impostole dal padre, sono colpiti di striscio dall’esemplare, dal tragico, che si consuma pienamente in Romeo e nell’amata, riportandone una piaga sanabile ma da cui non si può guarire. Che sarà di loro? Schiacciati in un duplice suicidio faranno gradita, usuale corona alla catastrofe; vivi, negli anni porteranno la modernissima piaga dell’irrisolto che passa per gli occhi di chi ha visto.
Romeo e Giulietta ovvero la perdita dei Padri
un progetto di Biancofango
drammaturgia: Francesca Macrì e Andrea Trapani
regia: Francesca Macrì
con: Simone Perinelli e Andrea Trapani
e con (in ordine alfabetico):
Emilio Airulo, Diego Benedetti, Sara Celestini, Mounir Derbal, Gaia Diodori, Lorenzo Fochesato, Erica Galante, Paolo Leccisotto, Sara Mafodda, Martina Mignanelli, Antonio Saponara, Maria Sgrò
drammaturgia musicale: Luca Tilli
violoncello: Luca Tilli
collaborazione artistica: Isabella Rotolo
aiuto regia: Bianca Palmieri Balduini
produzione: Teatro di Roma | Biancofango
in collaborazione con: RialtoSantAmbrogio e Scuola di Cinema Gian Maria Volontè
si ringrazia: Francesco Montagna | carrozzerie n.o.t. Max Malatesta | Accademia Beats di Tivoli
Visto a Roma, Teatro India, il 20 dicembre 2014