Cosa affascina così tanto i giovani da voler a tutti i costi affrontare il mestiere del teatro pur conoscendone i rischi? Quali sono le maggiori difficoltà a cui vanno incontro? Quali le loro aspirazioni?
Per cercare di rispondere, almeno in parte, a queste ed altre domande, abbiamo seguito un casting che si è tenuto ad Erba, una cittadina vicino a Como che possiede un bellissimo teatro all’aperto, il Licinium, in vista di una rappresentazione estiva di “Romeo e Giulietta” di Shakespeare, organizzata per sette giorni in luglio dalla compagnia Il Giardino delle Ore e da Mumble Teatro con la regia di Davide Marranchelli e Simone Severgnini.
Alla call hanno risposto più di 700 fra ragazzi e ragazze. Tra loro sono stati scelti i 25 che hanno partecipato alle audizioni: 11 donne per i ruoli di Giulietta e la Nutrice, 14 per i ruoli di Romeo, Tebaldo, Frate Lorenzo e Mercuzio.
Quella delle selezioni è stata una giornata davvero appassionante, che ci ha permesso di constatare la bravura di tutti i ragazzi e le ragazze pre-selezionati, messi alla prova in un contesto non certo tradizionale: gli artisti sono stati subito catapultati in un turbinio di situazioni che li ha visti immediatamente in scena nello scambiarsi i ruoli, per rendere subito credibile ogni momento del capolavoro scespiriano.
25 attori e attrici, divisi tra mattino e pomeriggio, si sono confrontati tra loro, senza remora alcuna, affidandosi alle indicazioni dei due registi, rispondendo con passione e competenza ai loro stimoli, e proponendo i rispettivi personaggi con sfaccettature diverse ma sempre credibili.
25 giovani artisti dai 25 ai 35 anni, provenienti da tutta Italia, con esperienze diversissime tra loro, tutti accomunati dal grande amore per la loro professione.
Così, tra una pausa e l’altra, abbiamo intervistato molti di loro sulle problematiche inerenti questo mestiere.
Una prima problematica ravvisata con frequenza dai partecipanti al casting è stata quella della difficoltà di entrare in un sistema chiuso, appannaggio di pochi; e la scarsa considerazione del mestiere parte sin dalla famiglia, che vede con scetticismo tale futuro per i propri figli.
Gloria Giacopini (proveniente dalla Scuola Paolo Grassi, dove ha coniugato il corso di regia e quello di attore, ha già lavorato per lo Stabile di Torino e a Ferrara Off, e ha una piccola compagnia in cui è autrice e regista), sottolinea un’altra caratteristica negativa che si riverbera anche sugli spettatori: “Per me c’è poca attenzione per il pubblico; il teatro vive spesso in un ambiente elitario, monologante, e al contempo manca un’educazione per portare nuovi spettatori. Mi è piaciuto subito questo progetto, in un piccolo paese di provincia, perché lo vedo proiettato verso un pubblico totale”.
Con alle spalle un curriculum già invidiabile (Bob Wilson, Gli Incamminati), Edoardo Rivoira rincara la dose: “Questo mestiere, nel nostro Paese, non è mai considerato una cosa seria, che serve per vivere; così è difficile crearsi una carriera in modo onesto, scevra da ogni condizionamento. Ma io lo rifarei comunque, penso che si debba vivere per fare sempre qualcosa legato alla bellezza e all’umanità. Penso però che la maggior parte del teatro che si fa in Italia sia un teatro fatto per le élite e non per la gente”.
Filippo Beltrami, Michele Balducci e Michele Puleio (che dopo aver studiato con Jurij Ferrini ha ora una sua compagnia, Officine Gorilla) ribadiscono che le occasioni di lavoro sono rare e mal pagate, a meno di non essere in un circuito ben delineato. La difficoltà maggiore è la concentrazione sul lavoro d’attore, diluita fra ricerche su internet, lavorare per i bandi, comporre progetti per i premi. Insomma, per portare a casa la pagnotta si devono fare troppe cose, soprattutto laboratori, e sempre meno spettacoli.
Salvatore Alfano e Stefano Iagulli concordano nel sottolineare, dopo le molte possibilità per la formazione che pure vi sono, la mancanza di spazi dove provare, e il non poter lavorare rimanendo sempre fedeli a sé stessi, con un’etica propria.
Andrea Cioffi, che viene da Napoli dove ha una sua compagnia attualmente in semifinale al Premio Scenario, ci racconta che secondo lui il mestiere dell’attore ha perso il proprio ruolo sociale, manca un vero rapporto con il pubblico, il teatro si autocelebra continuamente, vivendo in una torre d’avorio dove o accedi dal basso o non vi entri: “Devi sempre scalare e scalare, anche perché da soli non riusciamo a cambiare queste dinamiche”. La stessa cosa la ribadisce Alessia Spinelli: “Il lavoro, che pure esiste, è spartito tra i soliti nomi; ma io non demordo, cerco attivamente ogni possibilità di lavoro e le occasioni come questa qui di Erba”.
Anche Federico Rubino si è gettato in quest’avventura, dopo aver lavorato con Massimo Dapporto e Filippo Timi: “Non avevo mai avuto l’occasione di affrontare questo testo e dunque, siccome mi piacciono le sfide, sono qua”.
Stefano Pettenella, Nadia Saragoni e Lorenzo Volpe pongono l’accento su come sia importante, prima di volare via autonomamente, far parte di un Teatro Stabile, non solo per avere uno stipendio fisso, ma anche per assicurarsi una pratica teatrale quotidiana, per affinare le tecniche, imparando il mestiere da chi lo fa da molto tempo, affinché diventi tuo con una propria specificità artistica.
Per Nadia è anche importante imparare a conoscere tutti i mestieri del teatro: da chi è alle luci, allo scenografo, al costumista. Tutti e tre sono protesi a formarsi una compagnia. Stefano, che ha lavorato al Rossetti di Trieste con Maria Grazia Plos in diverse produzioni, ora fa parte del Collettivo L’Amalgama, con cui spera di tornare a fare teatro. Lorenzo, che ha lavorato al Teatro della Toscana, sta scrivendo un testo “per lanciare un urlo riferito alla mia generazione, privata del tempo, e che non percepisce più contro chi lottare, a differenza della generazione del ’68”. Parole che lo accomunano a Nadia: anche lei sente l’esigenza di vedere in scena uno spettacolo che parli di futuro, di qualcosa in cui credere.
“Io ho voluto fare l’attore perché penso sia il mestiere più bello del mondo, sapevo benissimo che sarei rimasto povero, ma so che ho un ruolo ben preciso nella società e soprattutto sono in rapporto con qualcosa che desidero fortemente – afferma convinto Alberto Ierardi – Però vorrei che, a dirigere i teatri, ci fossero non degli amministratori ma chi vuole davvero immaginare un mondo diverso, un teatro più vivo e più forte”.
Beatrice Zanin crede che le donne abbiano meno possibilità in teatro, perché essendoci troppa richiesta c’è molta competitività, e a contare molto è ancora l’aspetto fisico. Tuttavia è contenta, perché riesce a fare molti provini e sarà a Bologna in estate con Asimmetrie artistiche: “Lo so che sarà difficilissimo ma non voglio fare altro – ribadisce – Non voglio fare altro”.
Anche Alice Parente, che desidererebbe tanto fare Mercuzio ma è qui per Giulietta, sottolinea gli stessi pensieri: “Siamo in troppi e ci vuole molta costanza, ma per fortuna o per disgrazia vince sempre la passione”.
Continuiamo a parlare con le ragazze per vedere le problematiche dal punto di vista di una donna. Natalia Magni, Alessia Spinelli, Luisa Casasanta e Ianua Coeli Linhart vengono da esperienze molto diverse tra loro, e ci confermano che mancano soprattutto le possibilità; qualcuna di loro adombra anche il fatto che alcuni uomini, per concedere una parte, chiedano loro più del dovuto. Conta anche il fisico, e a una certa età le possibilità diventano sempre meno. Tutte convengono che sia meglio quando, come per l’occasione di Erba, c’è una sana competizione: “Essere in competizione perché sei brava e non perché sei parente di qualcuno o fai parte di quella compagnia”.
E poi ci sono i sogni: Arkadina de “Il Gabbiano”, Medea e perfino Caligola…
“Sono qui perché non perdo mai occasioni, a prescindere dal progetto, che in questo caso mi sembra ottimo – ci svela Alessandro Lussiana, che conosciamo già come valente attore del Teatro Dell’Elfo – Mi sono cimentato in questo testo 13 anni fa, quando a Roma facevo Mercuzio; qui ovviamente, passato del tempo, mi misuro con Frate Lorenzo. All’Elfo l’anno prossimo sarò in scena con “Moby Dick alla prova” e un nuovo testo di un drammaturgo di origine indiana, sempre con la regia di Elio De Capitani. Ora poi, anche se faccio parte di un nucleo artistico già consolidato, devo avere il triplo di forza per proseguire nel lavoro, perché il numero dei competitor è aumentato. Spero che la pandemia dia uno slancio al cambiamento del settore; mancano le tutele al nostro mestiere e vi è poca considerazione da parte delle istituzioni nel considerarlo come tale”.
Ci sono anche ragazzi che hanno fatto esperienza all’estero. Manuel Soro ha avuto la fortuna di aver studiato a Los Angeles: “Lì essere attore è considerato un mestiere, un lavoro a tutti gli effetti, per cui esiste anche una formazione universitaria. Io ho studiato alla Stella Adler: per i primi quattro mesi non ho mai recitato, c’è stata prima una preparazione dello strumento vocale e gestuale, la conoscenza di te, come affrontare un testo… Ogni tecnica aveva una sua classe precisa con un percorso approfondito ad hoc. A Roma, pur essendo la mia una scuola buona, tutto era più univoco e non così poliedrico”.
Lo conferma Luca Massaroli: “Anche a Londra era così, qui in Italia è una specie di catena di montaggio dove escono tutti con lo stampino, invece all’estero si cerca di scavare nelle tue qualità personali per farle risaltare”.
Arriva addirittura dal Brasile Larissa Izzo. Là faceva anche cinema, ma da tre anni vive in Italia con il marito; ha fatto molta pubblicità e, se per questo progetto verrà scelta per interpretare la Nutrice, sarà il suo primo spettacolo.
Richieste, aspirazioni, critiche, sogni, disillusioni: in tutti i ragazzi e le ragazze con cui siamo venuti in contatto non abbiamo comunque mai notato un ripensamento. Tutti sono mossi da una passione di cui, per esperienza, non conosciamo la ragione. E’ un mestiere, un’arte così illusoria… che contiene la forza unica di entrare nelle pieghe più profonde della realtà che ci circonda. Questo è il teatro!