La solita eterna domanda: perché tornare a proporre un classico dei classici come “Amleto”, “Antigone” o, in questo caso, “Romeo e Giulietta”?
In un periodo critico (tanto nel senso buono che in quello cattivo) il sistema teatrale sembra morbosamente attratto, al contempo, da presente e passato. Se da un lato è vivo il rischio di immobilizzare i propri sforzi, di pietrificare il lavoro stesso, si apre anche l’opportunità di trasformare questa tendenza in un positivo assunto, una conferma di eternità che riesce a rincuorare, come intingendo il pennino della ricerca nel calamaio della tradizione. È il caso del “Romeo e Giulietta” della compagnia Atir, fondata e diretta da Serena Sinigaglia, che torna a calcare lo stesso palco su cui quindici anni fa aveva debuttato.
Il Valle di Roma la ospita infatti a chiudere la stagione di “Monografie di Scena”. Una conclusione che sancisce anche l’addio della gestione di questo teatro da parte del defunto Eti, risalente al lontano 1955, e che oggi lascia un altro spazio immerso in un futuro incerto.
Lo spettacolo della Sinigaglia comincia nel foyer, dove Montecchi e Capuleti, in calzamaglia, conchiglia e bastone da pellegrini, invitano ad entrare gli spettatori – in gran parte scolaresche –, li accompagnano ai posti, con loro s’intrattengono commentando le chiacchiere pre-spettacolo.
La scena di apertura si svolge a luci di sala accese, gli stessi attori interpreteranno diversi personaggi (coi protagonisti anagraficamente fuori parte), e tra palco e platea ci sarà una distanza solo sommaria, una linea di convenzione, nessun muro messo lì a separare due mondi. Tutti presupposti perfettamente elisabettiani, che rimandano a un’epoca in cui il teatro era l’unico intrattenimento (oltre alle impiccagioni) che contemplasse la partecipazione di tutta la comunità. Un codice di rappresentazione ancora ben lungi dal considerare una distinzione tra commercialità e sperimentazione.
Gli attori formano una vera e propria compagnia, lo racconta l’agilità con cui si muovono in scena. Una scena che è spazio d’azione scarno e aperto a ogni acrobazia, sia fisica che verbale. A incorniciarla, un sistema essenziale ma ingegnoso: due funi fisse a mezz’aria corrono da proscenio a fondo creando una fondamentale prospettiva; teli appesi come panni ad asciugare separano gli ambienti, nascondono quel che c’è da nascondere e mostrano il dovuto; un lenzuolo bianco si fa fondale mobile, che corre sulle funi sventolando come bandiera, dando l’idea della pagina scritta che si volta su una nuova scena e offrendosi come schermo per fari e ombre. Quattro tavoli di legno bastano a costruire e distruggere i vari ambienti, e le musiche (classiche e moderne) cercano qua e là l’effetto, ma con intenzioni più ironiche che ammiccanti. Le stesse che, caratterizzando bene la lettura del testo, ne conservano l’urgenza. Anche laddove, per quanto chiara l’intenzione di rappresentare l’amore dei due innanzitutto come apprendistato sessuale – in qualche modo dionisiaco, alcuni toni e doppi sensi (soprattutto nel ruolo del satiriaco Mercuzio) alla lunga rischino di ripetersi.
Questo “Romeo e Giulietta” brilla di vitalità, tenacia, simpatia e grande abbandono a quella che è l’arte teatrale più pura: azione, abilità acrobatica e mimica, risate sincere, pause necessarie ma mai forzate, intensità di sguardo e una copiosa vena filologica che, se è adatta alle scuole, è una lezione di atteggiamento anche per chi pensa di sapere con precisione dove stia di casa il teatro.
La compagnia reagisce alle scelte di regia di Sinigaglia con grande prontezza, le fa proprie, s’intuisce il lungo sedimento di un’orchestrazione che lascia molto alla vitalità della materia attoriale.
Con questo spettacolo, nel 1996, nasceva l’Atir; e la “lacrimevole commedia” dei due giovani amanti alla scoperta dei primi sentimenti, in un mondo che li soffoca con le proprie stesse logiche di vanità e odio, era il modo migliore di manifestare una passione.
Passione, di questa parola vivono i grandi classici, testi e concetti che sopravvivono al mutare dei costumi senza perdere la capacità di raccontare il contemporaneo.
In questa operazione corale Sinigaglia e i suoi attori ci ricordano che fare teatro è fare innanzitutto politica, perché si ha la possibilità esclusiva di prendere possesso di un evento in quanto forma di fruizione irripetibile, occasione di immediatezza in cui la comunità si ritrova per riflettere insieme. Ed è incredibile come a volte l’enorme potenza di questa opportunità passi inosservata.
ROMEO E GIULIETTA
di William Shakespeare
su traduzione di Salvatore Quasimodo
con: Marco Brinzi, Mattia Fabris, Stefano Orlandi, Carlo Orlando, Fabrizio Pagella, Maria Pilar Pérez Aspa, Arianna Scommegna, Chiara Stoppa, Sandra Zoccolan
scene: Maria Spazzi
costumi: Federica Ponissi
luci: Alessandro Verazzi
attrezzeria: Maria Paola Di Francesco
maestro d’armi: Adolfo Fantoni
regia: Serena Sinigaglia
produzione: Compagnia ATIR
durata: 2h 40′
applausi del pubblico: 2′ 10”
Visto a Roma, Teatro Valle, il 10 maggio 2011