Al Quarticciolo di Roma il nuovo spettacolo, in scena al Teatro Elfo Puccini di Milano l’11 e il 12 marzo, si chiede perché amiamo certe specie animali mentre ne sfruttiamo altre senz’alcuna pietà
Alcune storie sembrano tutte superficie impenetrabile, una crosta, un ghiaccio che affonda saldo e non consente fratture. I fatti contribuiscono, ma sono soprattutto le parole tra i personaggi a costruire quella superficie, dialoghi così esenti da tentazioni di eloquenza da scoraggiare chi li ascolta. Così la struttura, priva della soluzione di un’acme, di un qualche rispecchiamento interno, di un’emersione epifanica trionfale, pare quasi latitare. Si tratta di storie che rischiano di essere accantonate come spuntate, grigie. E anche qualcosa di più: rischiano che il punto tematico al loro centro, non essendo portato in trionfo o lasciato brillare all’aria aperta ma appena sfiorato, appena percettibile in trasparenza sotto quella crosta, passi inosservato.
Così la mano di Clara Sancricca, che scrive il testo di “Salto di specie”, progetto vincitore del bando Toscana Terra Accogliente 2020 a cura di Rat (Residenze Artistiche Toscana), appena passato a Roma al Quarticciolo, fa consapevolmente correre questo rischio al progetto di Controcanto Collettivo. Con grande coraggio.
Non è uno spettacolo accattivante, non è uno spettacolo brillante, nonostante l’occorrenza di qualche risata, che scapperebbe anche ad ascoltare una conversazione per strada o in una sala d’attesa. Si galleggia, un po’ ci si distrae, viene la tentazione di invocare qualche sforbiciata, ci si annoia persino un po’.
Eppure chi ne farà esperienza, si accorgerà che a quella distesa quiete sottostà un rovello tragico a cui, una volta individuato, sarà difficile sottrarsi; e tragica è anche la quieta nobiltà di architettura e di scrittura (lo suggerisce anche Susanna Pietrosanti), che si maschera sotto apparenze scialbe.
Tra una scenografia (di Michelle Paoli) che ricorda il cassone di un camion per il trasporto del bestiame, causa di clangori e cigolii, tre camionisti, il loro principale, la sorella di uno di loro e una fisioterapista-ayurveda depositano i loro dialoghi iperrealisti, in un dialetto romano contemporaneo così totalizzante da schiacciarne anche i contenuti. Il realismo delle parole stride con il simbolismo della scena (dove siamo? è una cucina, è un giardino? siamo anche noi quella carne portata a macellare?); e quello stridio non rinuncia a sollecitare l’attenzione dello spettatore, a metterlo dinnanzi all’esperienza dello straniamento.
È qui, in questa desolazione di toni, che riporta fedelmente la desolazione di una inconsapevole massificazione, di una amputazione culturale, che “Salto di specie” riesce a trovare la propria forza di risonanza. Non attraverso un’esposizione teorica che fornisca, inquadrandoli, problemi e soluzioni, che sappia essere politica. Ma piuttosto con la ricostruzione oggettiva, quasi verista, di un cortocircuito che dovrebbe cogliere chiunque di noi: quello della contraddizione specista che fa dell’uomo l’utilizzatore di alcune e l’affettuoso compagno di altre specie animali.
È un sentimento che Sandro (Emanuele Pilonero), trasportatore di bestiame da allevamenti a mattatoi, sperimenta in prima persona attraverso il fortuito contatto con una cagnetta, Luna, che gli viene affidata, quasi senza il suo consenso, da una vicina di casa. Luna si ammala, lui è “costretto” a curarla, ad assisterla, prende addirittura una settimana di ferie per controllare che non si rosicchi la coda.
È al ritorno al lavoro che prova su di sé l’inattesa insorgenza di una reazione fisica, istintiva (non a caso passa per gli occhi di un animale che lo guardano, una vacca renitente a salire sul suo camion) e lui non riesce più a fare il suo lavoro, quello di condurre quotidianamente gli animali al macello.
È una reazione, psicosomatica, si direbbe, che contiene in forma organica il segno dell’incoerenza brutale del nostro rapporto con le altre specie, ma che non ha la forza di tradursi in politica, forse nemmeno in etica. Si installa alla bocca dello stomaco, come un conato.
Eppure esiste. E la prova di questa esistenza è delegata all’incredulità dei colleghi e della sorella (la stessa Sancricca, la più notevole tra i convincenti interpreti in scena), che prova sconcerto e quasi vergogna per la reazione di Sandro, mentre lui, che non riesce neppure più a ingoiare uno spezzatino, oppone qualche mozzicone di parola, qualche sillaba, non esente da una dose di incredulo imbarazzo.
Si licenzia; i colleghi, disarmati, confusi, irritati dal suo gesto (ma non è ancora lo “you think you’re better than me” dei redneck filotrumpiani, né la paura di fronte a un rischio di contagio) faticano persino a dirgli addio. Una sensibilità oltraggiosa si è impossessata del loro collega, lo ha reso a loro estraneo d’un tratto, ed è come una possessione inspiegabile, a cui lui oppone una non-soluzione, che non sia di condotta personale, uno straziante silenzio.
Tanto la consapevolezza per Sandro è avvenuta in modo organico, irrazionale, così per noi la materia che emerge dal lavoro non è teorica, non è didattica. È un’apertura intima, mai dichiarata, affettuosa, dolente, che ha messo in comunicazione le specie. È, come si diceva in apertura, un bagliore, una pagliuzza che incontra la luce, muta e inspiegabile come una verità, appunto, della carne.
Salto di specie
drammaturgia Controcanto Collettivo
ideazione e regia Clara Sancricca
con Federico Cianciaruso, Riccardo Finocchio, Martina Giovanetti, Andrea Mammarella, Emanuele Pilonero, Clara Sancricca
scenografia Michelle Paoli
disegno luci Martin Emanuel Palma
costumi Rebecca Valloggia
foto di scena Simone Galli
organizzazione Gianni Parrella
produzione Controcanto Collettivo / Progetto Goldstein
progetto vincitore del bando Toscana Terra Accogliente a cura di RAT (Residenze Artistiche della Toscana) in collaborazione con Teatro Metastasio di Prato, Fondazione Toscana Spettacolo e Centro di Produzione della Danza Virgilio Sieni
Durata: 1h 15′
Applausi del pubblico: 2′
Visto a Roma, Teatro Quarticciolo, il 27 gennaio 2023