Come entra la realtà nella finzione? E la finzione come può elaborare e sostituire la realtà?
Lo spettacolo “Cock, Cock… Who’s There” della giovane finlandese Samira Elagoz, ospite nell’edizione appena terminata di Short Theatre, ha provato a darci qualche indicazione.
Nel 2005 Samira subisce uno stupro dal suo fidanzato. Un anno dopo decide di ricordare l’anniversario di quell’evento chiedendo ad amici e parenti di registrare per lei un video.
A partire da quelle sollecitazioni nasce l’idea di intraprendere un percorso artistico/documentario su un duplice versante: la paura nei confronti dell’aggressione fisica e le modalità dell’approccio da parte degli uomini.
Grazie a chat di incontri come Tinder e Chatroulette, e sotto la tutela di opportuni accorgimenti, Samira inizia a comunicare telematicamente con decine di uomini, richiedendo anche video-presentazioni; poi passa agli incontri veri e propri. Ne segue, negli anni, una “ricerca” internazionale, in tre città in diversi continenti: Europa, Asia e America.
Nel mezzo del progetto, fra i vari incontri, subisce un secondo stupro: anche stavolta non si tratta di uno sconosciuto, bensì di un amico di Tokio.
Lo spettacolo “Cock, Cock… Who’s There?”, già presentato in Italia nel 2017 al Festival di Santarcangelo, ruota attorno a questa ricerca, che ne è in qualche modo la traduzione teatrale, anche se lo spettacolo è poco più che la proiezione di video con il commento dell’autrice.
Al di là della gravità dell’evento personale, Elagoz vuole mettere a fuoco qualcosa che, in una società così pervasivamente normata com’è quella occidentale, tende a sfuggire ai controlli e alle regolarizzazioni: l’approccio tra i due sessi, inafferrabile perché relegato spesso agli ambienti personali e domestici, e perché prodromo all’argomento sessuale. Il quale è riuscito a costruirsi una cortina di tolleranza nel discorso pubblico anche nei confronti di quelle che un tempo si bollavano come devianze, purché siano condivise dai protagonisti.
Tuttavia, al di là di un paio di sentenze aforistiche che sono per lo più poste come premessa e conclusione («gli uomini sono statisticamente il più grande fattore di rischio per le donne», «poiché anche il secondo stupro è avvenuto da un conoscente, ho capito che avrei dovuto applicare alle persone a me vicine le stesse cautele che applicavo agli sconosciuti»), la parte documentale del lavoro di Elagoz riesce solo a collezionare un repertorio di maschi, dai più candidi a quelli deturpati da tic e ossessioni: da questa accumulazione, godibilissima sul piano spettacolare, non è discesa una teorizzazione convincente del problema.
Il punto di “Cock cock Who’s there?” non è nella “ricerca”: esso è, ancora una volta, nella forma del materiale scelto e nella sua disposizione. Nel sito dell’artista si legge: «I aim to view my life as cinematic, as material to be manipulated, to see reality as both subjective and malleable». In un’intervista a un giornale tedesco si chiarisce la questione: «When the material is placed on an editing table it already starts to lose its truthfulness. […] Throughout the process of creating this performance, I found myself in this triangle of equally important pursuits: trying to find the right balance between the personal, the artistic, and the anthropological observations I wanted to share with the work. This process made me view myself and my experiences from so many different sides, especially when contemplating how it might be interpreted by others. […] So one could say through cinematic means life can be edited into a new reality».
Ed è proprio qui il nucleo dell’operazione. Il volto e la descrizione delle esperienze di Elagoz, fotogramma per fotogramma, si affinano, si ripuliscono, si fanno più adatti al formato della ripresa, la quale assume caratteri via via esteticamente più rilevanti, fino a toccare punte di vero e proprio cinema. E non si tratta semplicemente del progressivo perfezionamento di una film-maker: è invece lo sbilanciamento di quel “triangolo” di cui parlava nell’intervista verso il vertice dell’artistico e della rappresentazione costruita.
Se il documentario iniziava con le riprese sgranate delle webcam degli amici, inquadrature fisse, schiacciate e sovraesposte, si passa poi a un montaggio più conscio dei videomessaggi inviati, e al racconto sentimentale dell’innamoramento della ragazza con il dolcissimo fidanzato, le scene nella vasca da bagno colma di morbida schiuma, la quotidianità lieve ed edulcorata (saturata nella fotografia), girata proprio come una scena di commedia indie romantica.
C’è la lunga inquadratura fissa sul volto sconvolto dopo il secondo stupro, mentre la protagonista lascia Tokio (e occorre realizzare che, a tenere lo smartphone ben orientato per la lunga straziante inquadratura, è la stessa Elagoz).
Non mancano neppure momenti di sfogo estetico puro e semplice, compiaciuto e un po’ stucchevole, magari, come nell’inquadratura in azzurro per un dolce esitante bacio con uno sconosciuto.
Insomma, il punto sembra essere questo: lo spettacolo, il documentario, l’opera “dal vero” sanno ben ridursi a tentativo di elaborazione di un trauma personale, ma gli esiti in questo percorso possono essere inattesi, come suggeriva con altri mezzi Ravenhill nel terzo e quarto atto del suo mirabile “Candide”.
Nell’opera di Elagoz l’esito è una drammatizzazione senza mezzi termini. In più, ma verso un’altra direzione, qui preme lo stratagemma emozionale di portare sul tavolo un trauma sentito come tragicamente attuale, la violenza di genere. Il che costringe lo spettatore sensibile a un continuo spostamento tra immedesimazione e distanza critica, un andirivieni che lascia a lungo spiazzati e incapaci di giudicare l’operazione nel suo complesso. La chiave è appunto focalizzarsi sulle modalità rappresentative.
In tutto ciò, Samira Elagoz appare un personaggio che, minuto dopo minuto, perde sempre di più il suo contatto con la realtà per divenire opera di finzione, contraddittoria. La sua presenza fisica sul palco, tutta in bianco, quasi in ‘costume’ di ragazza, sa di ologramma, di anime.
Lo stesso racconto si permette un finale in linea con l’universo di fiction a cui appartiene. Alla sua uscita di scena, la protagonista dichiara più o meno così: «Questa è la mia storia. Ora sapete tutto di me… o quasi», con l’unica inflessione ammiccante dell’intera serata. Segue un nuovo video, montaggio di diversi primi piani di Samira, colori saturati, rossetto strabordante, occhi pesti, che lascia colare dalle labbra dello sperma. Un nuovo, ma ormai solo apparente, rimescolamento di carte.
Cock, Cock… Who’s There
ideazione, regia e editing Samira Elagoz
con Samira Elagoz, Ayumi Matsuda e Tashi Iwaoka
supervisione Jeanette Groenendaal, Bruno Listopad e Richard Sand
suono David Krooshof
con il supporto di The Finnish Cultural Foundation, Blooom Award e SNDO
durata: 1h 05’
applausi del pubblico: 2’
Visto a Roma, La Pelanda, l’11 settembre 2019