Site icon Krapp’s Last Post

Santarcangelo 2022. Tra fragilità e autobiografia

Scores that shaped out friendship (ph: Jean-Marc Turmes)

Scores that shaped out friendship (ph: Jean-Marc Turmes)

Da Anna Karasinska a Mats Staub e Léa Drouet, ripartire da esperienze di vita per rinnovare il dialogo con il pubblico. Il racconto degli ultimi giorni di festival

Torniamo con questo articolo, per un’ultima volta, all’edizione 2022 del Festival di Santarcangelo svoltosi a luglio.
Il bello della manifestazione, soprattutto in questi ultimi anni contraddistinti da un giusto e frequente cambio di direzione artistica, è stata senza dubbio l’occasione offerta ai suoi frequentatori abituali di potersi immergere in mondi assolutamente diversi fra loro.

Dopo la direzione di Ewa Neklyaeva con Lisa Gilardino e i Motus di Enrico Casagrande e Daniela Niccolò, ecco il primo anno del nuovo curatore artistico, il trentasettenne polacco Tomasz Kirenczuk. Partendo dalle sue considerazioni, che potete trovare nelle interviste che gli abbiamo fatto durante le giornate di festival, proviamo a restituirvi alcune ulteriori visioni che ci hanno attraversato nei tre giorni finali del festival, declinandoli con la lente della fragilità che ha contraddistinto molti dei lavori a cui abbiamo assistito. Una fragilità che ci è stata restituita spesso, impastandosi nella vita dei performer e degli artisti in scena, molte volte non professionisti, e nel loro racconto proposto direttamente in scena.

Negli spazi dell’ex cementificio Buzzi Unicem, un’enorme area industriale dismessa dal 2009, per esempio, ci accoglie la signora Mara, protagonista di “New Creations”, il lavoro ideato da Anna Karasinska, rimasta per il progetto alcuni mesi in residenza a Santarcangelo. Insieme a Mara, che rappresenta in qualche modo la memoria storica di quel luogo, indossando un vestito della madre che vi ha lavorato per molti anni, la regista polacca ha coinvolto alcuni uomini e donne stranieri che vivono nei dintorni, facendo raccontare loro i ricordi e le esperienze personali, con l’idea di creare uno spazio di condivisione col pubblico. I racconti in diretta di Mara, che partono dalla prima guerra mondiale, si raccordano così con quelli del ragazzo egiziano che ha partecipato alle proteste del 2011 ed è dovuto fuggire dal suo Paese e con quelli di una ragazza peruviana che narra le difficoltà avute nell’abbandonare il proprio Paese e la propria famiglia.
Così la memoria storica di questo luogo, mentre mangiamo un buonissimo ciambellone preparatoci da Mara, si mescola alle storie di vita dei nuovi abitanti di Santarcangelo, provenienti da altri luoghi, in una narrazione commovente e condivisa.

In qualche modo la stessa cosa avviene in una casa privata di via Rossa nel progetto “Death and Birth in my life”, dello svizzero Mats Staub, dove assistiamo in video alla confessione di due donne molto anziane, la cui vita è stata attraversata da diverse sofferenze.
Le ascoltiamo con deferenza insieme ad altre persone, riunite intorno al piccolo schermo, mentre confessano che, in fin dei conti, nonostante tutto quello che ci può capitare, la vita vale la pena di essere sempre vissuta.
E di ciò discutiamo, anche condividendo i nostri piccoli dolori e gioie, bevendo un bicchiere di vino con gli altri partecipanti alla performance e ai padroni di casa.

Ci trasferiamo poi all’ITC Molari per “Scores that shaped out friendship”, in cui l’artista tedesca Lucy Wilke e il danzatore polacco Pawel Dudus, con l’accompagnamento musicale della compositrice Kim Twiddle, mettono in scena la loro particolarissima relazione. Qui però ogni artificio teatrale cessa per lasciar posto al rapporto ludico, intriso di forte condivisione, tra una performer con disabilità e un artista, rapporto che si evidenzia in modo divertito e divertente per la sua queerness.
Il lavoro così, tra identità e intimità, costruisce una performance che distrugge – nello sguardo di chi osserva – ogni piccolo sentore di supposta diversità.

A volte il nostro sguardo sugli spettacoli ha dovuto interfacciarsi con il contesto in cui sono nati, facendosi per forza aiutare dalle presentazioni scritte dagli autori. Così, per capire “Love me”, dobbiamo conoscere e avvicinarci alla disperazione e alle ferite che si porta dentro e fuori la danzatrice e coreografa argentina Marina Otero, e che si manifestano con una danza feroce e sgraziata.
O ancora, per entrare almeno in parte in “Dandelion II” di Rita Mazza, è invece necessario sapere che l’artista torinese, non udente, utilizza esclusivamente una lingua dei segni americana mescolandola con la danza, e assegnandole molteplici significati.
E per comprendere sino in fondo i movimenti di Pawel Sakovicz, presentata nella centrale piazza Ganganelli, dobbiamo sapere che la coreografia a cui stiamo per assistere, “Jumpcore”, è un omaggio a Fred Herko che il 27 ottobre 1964, danzando nel suo appartamento sulle note della messa dell’Incoronazione di Mozart, si gettò dalla finestra. Davanti a noi gustiamo un appassionante catalogo di salti che il performer imbastisce inondando lo spazio bianco, circondato da semplici sedioli di legno per il pubblico, che troneggia nella piazza centrale di Santarcangelo.

In “Samba do crioulo doido” dobbiamo allo stesso modo sapere che ciò che andiamo a vedere è il re-enactement della performance del coreografo Luiz de Abreu, “trasmesso” al performer in scena, lo statuario Calixto Neto, anche lui proteso a superare gli stereotipi legati al corpo e alla sessualità associati alle persone di colore.
Lo spettacolo, per destrutturare questi concetti, utilizza simboli come la bandiera brasiliana, la samba, gli stivali col tacco, ricordandoci al contempo che quello a cui stiamo assistendo, sarebbe forse impensabile da rappresentare oggi nel suo Paese, governato da un sistema politico dai dubbi contorni democratici.

Violences (ph: Cindy Sechet)

Infine l’ultimo spettacolo del festival, “Violences” di Léa Drouet. La regista e attrice belga, in modo sommesso, quasi in punta di voce, racconta – servendosi anche del teatro di figura – la scena che agisce, trasformandola ogni volta, una scena in cui la sabbia è protagonista e copre ogni cosa: anche la morte di Mawda, una bambina curda di due anni uccisa da un militare dopo un lungo e drammatico inseguimento ai confini del Belgio.
La morte atroce di Mawda, nel medesimo tempo, si concatena con il viaggio della nonna dell’artista, Mado, che da piccola ha dovuto forzatamente uscire dal suo Paese. In questo modo il racconto delle due bambine diventa l’emblema toccante delle discriminazioni, tra chi fugge dalla guerra e chi dalla fame per un avvenire migliore.
Anche qua viene posta in scena una delle metodologie narrative che ci è sembrata tra le più frequentate nel festival di quest’anno, un autobiografismo che, connaturandosi con le fragilità rappresentate, ci ha donato un teatro dai contorni necessari, in cui la vita e le sue mutevoli e dolorose circostanze si animano in scena per mostrarcene l’essenza più intima e condivisibile.

Exit mobile version