Santarcangelo 39: fra mutamento e continuità. Il reportage

Santarcangelo di Romagna
Santarcangelo di Romagna
Santarcangelo di Romagna (photo: Laura Arlotti)

Santarcangelo. Arrivi: arco, piazza. Appuntamento all’info point di “piazza Garganelli?”, “No, Ganganelli!”.
I primi sono una pasta all’uovo della zona, che si mangia con salsiccia e piselli, il secondo è il nome della famiglia che diede i natali a Papa Clemente XIV (1705 – 1774). Azz! Un papa qui? In Romagna? Romagna… piada! Piada… cassone! Cassone, baretto in piazza, scale, raggiera di strade, a sinistra Sferisterio, a destra grotte. La Sangiovesa segnalata sulle guide. Salita ripida. Orari spettacoli. Coda alla biglietteria. “Per Maxwell tutto esaurito”. “E i giapponesi?”. “Quello delle 20 è un po’ pienotto, meglio alle 20,15”. “Ma dura 10 minuti?” “Sì”.

Trentanovesima edizione. Salgo. Fiatone. Panorama. Castello. Mare in fondo. La mappa fa sembrare le cose lontane, ma in realtà tutto è vicino. In orizzontale. Biglietti, cartella stampa. Toh’, i Motus! C’è pure la Castellucci, Chiara Guidi con lo scialle, arriva Ermanna Montanari con lo stivale trendy, che alla punta divide l’alluce dal resto.
Balle di fieno: portano gli animali in piazza. Il primo giorno stanno in questi recinti, il secondo li portano addirittura in processione. Una mucca mi muggisce d’affrettarmi: ho trovato al brucio, prima del primo spettacolo che ho in programma, un last minute per Kinkaleri.
Arrivo, entro: ex prigioni, caldo infernale, lei ventriloqua taglia volti da giornali patinati e li compone in un altrove mosaico. Durata 20 minuti. E’ uno studio.

Sono le 21.55. Scappo, salgo ancora, alle 22 un’altra pillola: Felix Thorn. Tolte le scarpe entriamo in una casetta, ci sediamo per terra sul materasso e ci fanno vedere i giocattoli musico-luminosi che lui costruisce. Inizia il concertino. Prima luci poi buio. Infanzia. Bello. 15 minuti.
Di fronte, la rocca. Sede delle conferenze pomeridiane. Penso a chi se la suda fin quassù e a chi resta in basso.
Un’altra casa a metà del colle: qui abitano i Muta Imago con lo studio su “Madelaine”, prossimo spettacolo. Altri 15 minuti. Alvin Lucier invece registra una frase e la fa risuonare in un altro ambiente. Mentre risuona la ri-registra. E così via per trenta volte. Alla fine la frase è puro suono. 27 minuti. Scendo. Sono le undici di sera. Fame boia. La signora del cassone-office mi spara un sorriso che allarga lo stomaco. Quale prendere? “Pomodoro e mossarella, ai funghi o alla salsissia”. Molta gente. Curiosa, interessata, bancarelle etniche.
Gli spettacoli brevi costano poco e impegnano l’attenzione il giusto, sembrano funzionare. C’è un percorso sensoriale. Enorme stanza buia, notturna. Con ospiti. Nel buio incontro Adele che mi prende per mano e percorriamo assieme il perimetro della stanza come i ciechi. Ma dura solo fino alla porta d’uscita.

Ore 23,30. Sul finire di una giornata tipo. Sta per iniziare lo spettacolo di Burrows e Fargion. Al Supercinema: nomi da Gradisca, penso fra me e me. Rido di gusto per più di mezz’ora. Dura 45 minuti, è fra le cose più lunghe insieme allo spettacolo di Richard Maxwell e dei NY City players: recitato e musical fra i pionieri. Fra la via Emilia e il West, diceva la canzone.
E’ sera. Dopo il temporale notturno di uno ieri qualsiasi, c’è luna piena. Sotto il portico e fra le case, nell’aria, si fidanzano zampirone e salamella. La ragazza dietro al banco mescolava birra chiara e Seven Up. Sull’arco giochi di luce. Una festa popolare. Qualcosa resta. Qualcosa svanisce.


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